Il viaggio del Presidente statunitense è propedeutico alla prossima tornata elettorale. Cosa ci si aspetta dall’incontro con il principe saudita bin Salman e il nuovo Primo Ministro israeliano Lapid
di Matteo Meloni
La spesso citata realpolitik aiuta in maniera cristallina a definire il senso del viaggio di Joe Biden in Arabia Saudita e Israele, realtà verso le quali il Presidente statunitense nutre ben differenti sentimenti, e che risultano ancora fondamentali nell’architettura gestionale sia delle relazioni internazionali di Washington che della politica interna Usa. Infatti, tra le principali — se non la più forte — necessità della missione dell’inquilino della Casa Bianca a Riad e Tel Aviv la preoccupazione di quanto potrebbe avvenire alle prossime elezioni di medio termine, con un forte bisogno di rinsaldare la fiducia tra l’amministrazione democratica e l’elettorato.
L’opinione pubblica statunitense è fortemente scontenta per il rincaro dei prezzi legati all’energia, motivo che spinge l’attuale Commander in Chief a recarsi dal più volte criticato Mohammed bin Salman la cui nazione, negli anni passati, è stata persino definita dallo stesso Biden pariah. Certo, quelle parole arrivarono nel pieno della campagna elettorale contro il predecessore Donald Trump, che al Principe aveva letteralmente lasciato carta bianca nella gestione di innumerevoli dossier.
Dal riuscito sabotaggio degli accordi sul nucleare con l’Iran alla terribile guerra in Yemen, passando per l’annullamento dei diritti umani all’omicidio Khashoggi, il corso portato avanti da bin Salman è stato un disastro che ha impattato fortemente sulle coscienze degli elettori democratici. Con effetto domino negativo sullo stesso Governo a stelle e strisce, col caso dell’embargo imposto dai sauditi al Qatar, Stato estremamente legato a Washington, che mise in difficoltà l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo, e causò la rottura interna al Gulf Cooperation Council.
Bin Salman tornò indietro sui suoi passi con l’elezione di Biden, cercando di andare incontro alle nuove esigenze che si sarebbero verificate. Ma la verità è che il Presidente democratico non sarebbe mai andato a Riad se non ci fosse stata l’invasione russa in Ucraina e il conseguente bisogno di calmierare i prezzi degli idrocarburi. Da un certo punto di vista, quella di Biden è una visita che getta ampie ombre sui democratici: l’Arabia Saudita non è certamente diventata nottetempo una democrazia attenta ai diritti umani.
È lo stesso Presidente a spiegare le motivazioni del suo viaggio in un editoriale pubblicato nei giorni scorsi sul Washington Post. “Il mio obiettivo è quello di riorientare — non rompere — le relazioni con una nazione che è stata partner strategico negli ultimi 80 anni”, scrive Biden, dopo aver ricordato le sue azioni dirette contro la Casa Reale dei Saud, come la divulgazione pubblica del report Cia sull’assassinio di Jamal Khashoggi e lo stop al rilascio di visti per coloro i quali erano coinvolti nell’omicidio del giornalista. “So che in tanti non sono d’accordo con la decisione di andare in Arabia Saudita. La mia posizione sui diritti umani è chiara, le libertà fondamentali sono sempre nella mia agenda, così come lo saranno anche nella visita in Israele e Cisgiordania”, ha ricordato Biden.
Per il Presidente, la necessità primaria è il contenimento della Russia. A costo di scendere a nuovi, contraddittori compromessi con una nazione non dissimile alla Federazione Russa nel modo di rapportarsi con i suoi cittadini, ma che può essere decisiva per cambiare, nei prossimi mesi, il costo del prezzo dell’energia. Biden nel suo op-ed sul Washington Post parla di “lavoro per aiutare la stabilizzazione del mercato del petrolio con i produttori Opec”. Un modesto rialzo della produzione si pensa possa aiutare a far calare i valori, cercando così di dare risposte ai rincari che hanno impattato sui cittadini statunitensi: un segnale di interesse che potrebbe tradursi in positivo alle urne, a novembre.
La visita in Israele
Sul fronte israeliano, dopo gli Accordi di Abramo messi in piedi dall’amministrazione Trump e rinvigoriti da quella attuale, si guarda oltre, pensando in grande. “Israele porge la sua mano verso tutte le nazioni della regione e chiede loro di costruire legami, stabilire con noi relazioni, così da cambiare la storia per i nostri figli”, ha detto il nuovo Primo Ministro Yair Lapid. Per Lapid, la visita di Biden porterà “un messaggio di pace e speranza”. Si spera, infatti, che si possa giungere ad uno storico avvicinamento — pubblico, non sottobanco come già esiste tra Riad e Tel Aviv — con l’Arabia Saudita. Un riconoscimento reciproco che porterebbe a nuovi cambiamenti nelle relazioni tra i Paesi arabi, con la questione palestinese sempre in perenne attesa di soluzione.
Biden ha ricordato la ricostruzione dei legami con l’Autorità nazionale palestinese: “Abbiamo ripristinato gli aiuti, circa 500 milioni di dollari”, ha scritto il Presidente, subito prima di evidenziare gli oltre 4 miliardi di dollari elargiti a Israele, nonostante le critiche della comunità internazionale e delle principali Ong verso le autorità israeliane per il trattamento in stile apartheid riservato ai palestinesi.
Un colpo al cerchio e uno alla botte: è così che Biden spera di vincere le elezioni di metà mandato, rinvigorendo l’attenzione alla classe media che più sta pagando i costi dell’energia, e lanciando il classico messaggio di supporto a Tel Aviv che tanto piace a una parte del suo elettorato. Niente di nuovo sul fronte mediorientale, se non una evidenza: il viaggio del Presidente non sarebbe mai avvenuto senza la crisi ucraina e l’escalation tra l’occidente e la Russia. Gli interessi principali rimangono per l’Indo-Pacifico e la Cina, con sparuti tentativi — come quello che si cerca di dimostrare col viaggio in Medio Oriente — di far intendere che gli Usa possono ancora dimostrare forza e capacità di mediazione in molteplici regioni del mondo.
Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu
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