Con due guerre alle porte, l’indifferenza che si respira in Europa è il segno che ci si sta abituando a tutto senza riuscire ad entrare nel merito dei problemi che ci circondano
E’ la vigilia del massacro del 7 ottobre, ma io sono a Copenaghen: da qui l’eccidio del Festival musicale Supernova di un anno fa sembra una cosa lontana. Ma è solo una sensazione: nel giro di poche ore vari segnali mi portano lontano da qui, spostandomi con la testa dalla tollerante Danimarca al trito Medio Oriente. Il primo lo giudico un caso, poi non più. In una piazza centrale trovo un arabo che attraverso un microfono gracchiante fa proselitismo ad alta voce. Sta su un pulpito in legno intarsiato ma dall’aria rimediata. Accanto capeggia un grande manifesto pubblicitario che, vado a memoria, recita “Allah è il tuo solo Dio”, scritto in inglese ed arabo. Lo ascoltano in pochi, una cinquantina di persone in tutto. Gli altri passanti seguono le vie e i bisogni dello shopping come se nulla fosse. Poco più in là, davanti alla stazione centrale trovo una scritta anti israeliana e anti semita. La vedete in questa pagina. Poi più avanti sulle impalcature di un palazzo, un grande lenzuolo bianco chiede la liberazione della Palestina. In centro la Sinagoga è presidiata dai militari.
Sono solo segnali, dicevo, ma che per l’appunto ci ricordano che qualcosa, forse di irrimediabile, è successo anche qui tra noi. Abbiamo passato un anno con le guerre alle nostre porte senza che la civilissima e potente Europa sia stata in grado di incidere per mettere fine a tanto orrore. Tanto in Ucraina quanto in Medio Oriente. Orrori su orrori calati nelle nostre vite da social e telegiornali che a furia di turbare gli animi hanno finito per sterilizzarli. Così, nella sostanziale indifferenza generale, dovuta al cinismo delle folle, alla banalità del male e alla opulenza delle nostre esistenze anche i massacri diventano routine, rumori feroci ma che rimangono lontani.
E allora ci si divide, perdendo un po’ la via della ragione. Quello che ho visto a Copenaghen, come le manifestazioni di antisemitismo che si registrano in tutta Europa, sono il segno tangibile di una divisione dell’opinione pubblica tra i pro e i contro. Dove il criterio principale per schierarsi da una parte o dall’altra sembra quello della contabilità dei morti. Una contabilità assurda. Da quando andrebbero contati i morti di una parte e dell’altra del Medio Oriente? Dalla fine della seconda Guerra Mondiale? Dai tempi dei Romani? E come si misura l’orrore? Solo con la morte o conta anche la repressione costante? La violenza, la mancanza di libertà, le diseguaglianze, il sessismo sono elementi che entrano in questa contabilità?
Quando andai in Nicaragua, era la fine degli anni 80, durante la guerra tra Sandinisti e la Contras uno dei miei doveri di giovane reporter era appunto fare la conta quotidiana dei morti. Così telefonavo agli ospedali, ai distretti militari e alle fonti della guerriglia e alla fine tiravo un rigo. Era cronaca. Di guerra ma sempre cronaca. Con gli anni ho capito che i morti sono figli di scontri di potere, economici, religiosi e culturali. Ed è da lì che la contabilità del male deve partire. Dalle origini dei conflitti.
Un anno fa, Israele e i Territori Palestinesi vivevano una fragile stabilità, mantenuta dal governo di destra di Benjamin Netanyahu, che manipolava Hamas attraverso corruzione e repressione, ignorando la questione palestinese e puntando sugli Accordi di Abramo sottoscritti con l’Arabia Saudita per la pace regionale. L’attacco del 7 ottobre 2023 ad Israele, arrivato inaspettatamente da Gaza, ha fatto crollare questa illusione di calma. Israele ha risposto duramente, causando decine di migliaia di morti a Gaza e aggravando la crisi umanitaria, che è peggiorata dopo gli attacchi in Libano. Una sequenza tremenda che ha reso il Medio Oriente ancora più instabile, prigioniero di un ciclo di violenza senza fine che ora vede di fatto in prima linea anche l’Iran. Una escalation che necessiterà il trascorrere di generazioni prima di trovare terreno fertile per una reale pacificazione dell’area.
In questo scenario complesso e doloroso rimane il dovere di ricordare che la questione palestinese è più una questione araba che non una sola disputa con Israele. I territori occupati sono un pretesto apparentemente legato alle ambizioni di crescita e di sviluppo israeliane, in realtà è un conflitto animato e sostenuto dalla lotta tra sunniti e sciiti. Se non si comprende bene questo, prevarrà sempre e soltanto la matematica dei decessi che non serve, o non basta, a spiegare le ragioni degli uni e degli altri e non porterà mai ad un percorso di reale pacificazione.
Il Medio Oriente è oltre l’abisso perché sciiti, sunniti ed ebrei sono in guerra tra di loro per avere una egemonia sull’area. C’entra il potere, l’economia e c’entra la religione. E allora se così stanno le cose c’è da chiedersi con chi dobbiamo stare noi occidentali. Con chi ha principi e modi di vivere comuni ai nostri? Con chi ci sentiamo di dividere e condividere quei discorsi di libertà, giustizia, uguaglianza, parità di genere che sono alla base delle nostre società? Netanyahu sarà anche un politico spietato e assetato di potere, ma è pur sempre il premier figlio di una democrazia, l’unica di fatto dell’intero Medioriente. Tutto intorno ad Israele sono al potere monarchie e dittature di vario genere.
E allora questo, almeno in Europa, dobbiamo ricordarlo. Dobbiamo fare un esercizio socratico di conoscenza di noi stessi e delle parti in causa e poi guardare e difendere chi ha valori sociali e culturali più simili ai nostri, evitando che la nostra tolleranza diventi una debolezza strutturale, come quella che ho intravisto a Copenaghen. Ci dobbiamo battere affinché la nostra aberrazione per ogni forma di violenza diventi un discrimine valido per tutti e i principi alla base della vita democratica diventino un patrimonio comune, sentito e condiviso.
E allora che il 7 ottobre diventi una giornata globale di rispetto delle regole più elementari di convivenza, di vita democratica, di sviluppo condiviso. Un giorno per dire no alle violenze e per andare avanti nei discorsi di pace, guardando oltre i confini storici di questo conflitto.
A questo proposito ritorna in mente la lezione di Hanna Arendt sul dialogo interiore, sulla riflessione che facciamo con noi stessi quando ci interroghiamo sul nostro agire morale, sui concetti di bene e male. “Odio gli indifferenti – diceva Arendt – credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia.” Ecco, facciamo allora che questo 7 ottobre diventi un peso vivo della storia, che l’anno trascorso, con i morti di tutte le parti, si trasformi in un anno da non dimenticare, proprio come furono gli anni dell’Olocausto, per dare al Medio Oriente una nuova prospettiva, una nuova vita
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