La Cina rischia di perdere il suo status di “fabbrica del mondo”

Il nuovo contesto internazionale sta rendendo il Dragone un hub sempre meno strategico e più rischioso. Diverse Big Tech stanno spostando la loro produzione in Vietnam: una grande opportunità per il Sud-est asiatico

di Gabriele Manca

La dura politica Zero Covid attuata dal Governo cinese non permette all’economia di ripartire a pieno regime. Inoltre, le crescenti tensioni geopolitiche legate alla questione Taiwan mettono in bilico il già fragile rapporto tra Pechino e l’Occidente. Alla luce di questi scenari imprevedibili, sempre più big companies del settore tech stanno iniziando a spostare la loro produzione dalla Cina verso il Vietnam. Si tratta di un processo messo in moto già durante la guerra commerciale e i conseguenti dazi sull’export cinese, durante l’era Trump. Foxconn Technology Group, Pegatron Corp., Compal Electronics Inc. and Wistron Corp. sono tutte aziende taiwanesi specializzate nell’assemblaggio di prodotti elettronici che stanno iniziando a considerare cruciale avviare una diversificazione dei siti di produzione, diminuendo la dipendenza dalla Cina. Esse fanno la fortuna delle più importanti compagnie tech mondiali come AppleSony e anche di varie case automobilistiche come Tesla e Volkswagen.

Il nuovo contesto internazionale sta rendendo la Cina un hub sempre meno strategico e più rischioso, spingendo la ricerca di nuove mete che sposino meglio gli interessi dei colossi tecnologici. Un Paese su tutti si sta dimostrando particolarmente attraente, il Vietnam. Il Sud-est asiatico si presenta come un rimpiazzo perfetto e, nel giro di pochi anni, sempre più prodotti delle Big Tech potrebbero avere la dicitura “Made in Vietnam”. Apple ne è un ottimo esempio: dopo la Repubblica popolare cinese, Hanoi è già considerato il suo più importante hub di produzione. La società statunitense ha già detto di essere in trattativa per produrre per la prima volta gli Apple Watch e i MacBook in Vietnam. Un altro esempio concreto è il caso di Microsoft che, quest’anno, ha spedito le sue console Xbox dalla città di Ho Chi Minh.

L’aumento del costo del lavoro, già da diversi anni, sta spingendo le big companies a rivalutare la strategicità della Cina come sito di produzione

La dinamica appena discussa rientra in un trend più ampio, avviato già da più di un decennio. L’incredibile sviluppo economico cinese ha contribuito in modo tangibile a migliorare le condizioni economiche della popolazione, traghettando la Cina verso la fascia dei Paesi a medio-alto reddito. Questo importante traguardo però ha messo in discussione uno dei grandi punti di forza del modello sviluppista del dragone, il basso costo del lavoro. Infatti, è risaputo che il costo del lavoro estremamente basso sia stato uno dei grandi vantaggi comparati della Cina, trainando la crescita economica dagli anni delle riforme di Deng sino ad oggi.

Pechino ha fatto della manodopera a basso costo, e dunque dei bassi costi di produzione, il suo motore di crescita, sfruttando la sua “quasi inesauribile” manodopera a disposizione. Anche quando nelle città i salari iniziavano a salire, il grande afflusso di migranti provenienti dall’entroterra del Paese, volenterosi di partecipare al sogno cinese, era in grado di mantenere il costo del lavoro più che competitivo. Questa dinamica non solo è andata affievolendosi con il tempo, ma ha trovato nel Covid e nei conseguenti rigidi lockdown un forte fattore frenante. Ad oggi, la Cina ha un costo del lavoro sempre più vicino a quello delle economie occidentali ma, soprattutto, superiore a quello di molte altre economie in via di sviluppo. Prendendo in considerazione i suoi vicini nel Sud-est asiatico come Vietnam, Cambogia, Bangladesh o addirittura la Thailandia, la Cina ha ormai un costo del lavoro superiore ben superiore. La conseguenza è un graduale spostamento della produzione manifatturiera nella direzione di queste economie emergenti. Se all’inizio la delocalizzazione verso queste mete riguardava soprattutto la produzione low-skill, adesso – come dimostrano le strategie di Apple, Google, Samsung e altri giganti del mondo tech – coinvolgono sempre di più il settore manifatturiero high tech.

Quali sono le conseguenze per gli attori coinvolti? La Cina ha iniziato a riformare il suo modello economico; i Paesi in via di sviluppo, come il Vietnam, godono dei benefici legati all’integrazione delle loro economie nella Global Value Chain

La Cina è consapevole di questo cambiamento in atto e dunque, sotto la leadership di Xi Jinping ha iniziato a lavorare per riformare il suo sistema economico nella direzione di un modello basato sul consumo, i servizi e l’innovazione tecnologica. Si tratta di risalire la catena di produzione, passando da essere “la fabbrica del mondo” che basa la sua fortuna sull’export, a essere un’economia moderna e più indipendente. Il processo è sulla stessa linea di quello già affrontato dalle economie ad alto reddito: il settore manifatturiero ha abbracciato a pieno le possibilità offerte dalla globalizzazione, stabilendosi nei Paesi a basso reddito in grado di garantire costi più bassi per la produzione. Ciò ha causato non pochi problemi alle economie in questione, come dimostrano i casi europei o quello statunitense, che si sono trovate a dover affrontare alti livelli di disoccupazione e malcontento sociale.

Allo stesso tempo però, la scomparsa del settore secondario è stata accompagnata da una grande espansione del settore terziario e dei servizi, in grado di offrire lavori meglio retribuiti e meno logoranti in termini fisici. Questo è lo stesso percorso che sta abbracciando la Cina, sempre più proiettata verso l’innovazione, che è l’unico modo per sfuggire alla trappola del medio reddito. Tuttavia come si è potuto – e si può tuttora – vedere, nelle economie occidentali la transizione è stata tutt’altro che facile e implica molte sfide e ripensamenti. Nel caso della Cina, soprattutto, questo percorso fa paura poiché lo status di “fabbrica del mondo” è uno degli elementi principali su cui si è fondata l’incredibile storia dello sviluppo economico del dragone asiatico. Inoltre, le crescenti tensioni con gli Stati Uniti e con l’Unione europea rendono la transizione ancora più complicata: il degenerare delle relazioni politiche comporta anche una riduzione della cooperazione economica e tecnologica, due input chiave per la modernizzazione dell’economia cinese che ha sempre tratto grande vantaggio dagli FDI.

Dal punto di vista dei Paesi in via di sviluppo del Sud-est asiatico, il trasferimento della produzione delle Big Tech nel loro territorio è una grande opportunità, sia in termini economici che di innovazione tecnologica. Diventare una meta privilegiata degli investimenti esteri delle grandi aziende è una delle allettanti possibilità offerte dalla globalizzazione. Richard Baldwin, professore di economia internazionale presso il Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra, definisce gli FDI come un “sussidio” all’innovazione e allo sviluppo. Le Tigri Asiatiche (Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud) e la stessa Cina ne sono l’esempio lampante, avendo trovato negli investimenti esteri delle grandi aziende un sostegno fondamentale alla loro industrializzazione.

Vi sono diversi elementi legati agli FDI che favoriscono lo sviluppo economico: sicuramente uno dei più significativi è il knowledge-transfer, ovvero il trasferimento delle conoscenze tecniche, e non solo, alla popolazione locale; esso avviene in conseguenza alla localizzazione di queste compagnie nel territorio e, dunque, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Ne consegue un effetto spillover, per cui un’attività economica in un determinato settore produce effetti positivi molto più ampi, in grado di coinvolgere altri settori e ambiti. Paesi come il Vietnam offrono alle aziende ottime prospettive, non solo come hub di produzione a basso costo, ma anche come nuovi mercati per i prodotti tech, in continua crescita. Hanoi ha abbracciato una crescita economica che sembra essere solida, come è stato dimostrato dalla resilienza mostrata durante gli anni della pandemia; nel 2020, il Pil è comunque cresciuto del 2,9%, riportando la miglior prestazione dell’Asia. Ad oggi, il Vietnam si candida a raccogliere, almeno in parte, lo status di “fabbrica del mondo” e con esso tutti i benefici economici che ne conseguono. Affinché questa possibilità si tramuti in risultati tangibili per tutta la popolazione sarà fondamentale il ruolo delle istituzioni nel guidare questo processo di transizione e nel continuare a creare le condizioni necessarie affinché le grandi aziende continuino a guardare al Vietnam come il post-Cina della produzione.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

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