Referendum giustizia: quali sorti per l’istituto dopo il voto?

Sono 73 le volte in cui gli italiani sono stati chiamati a rispondere a un quesito referendario, tra cui una sola volta per consultare l’elettorato e 67 per abrogare. Ha senso continuare su questa strada?

di Giacomo Gori

Negli anni sono state poste agli italiani un numero spropositato di questioni da scegliere con un sì o un no, anche quando forse non ce n’era davvero bisogno, come il 12 giugno. La “Repubblica dei referendum” non si smentisce e trova la sua realizzazione in superflue battaglie di partito esterne al Parlamento, utili solo a strattonare per la collottola l’elettorato, e stordirlo al punto da fargli perdere qualsiasi interesse per la vita politica del paese. Per 27 volte non è stato raggiunto il quorum, a testimonianza della scarsa attenzione riservata a domande poco sentite dalla maggioranza degli elettori. Ad esempio, già nel 97’ e nel 2000 i radicali avevano proposto quesiti sul tema giustizia simili a quelli sui quali si voterà, senza riuscire a portare alle urne la maggioranza degli elettori. Se la questione dovesse risultare di nuovo senza interesse, forse si dovrebbe avviare una riflessione su quali quesiti abbia senso sottoporre all’elettorato, tenuto fermo che il referendum è uno strumento fondamentale di democrazia.

I quesiti

Domenica gli italiani si sono espressi su cinque quesiti dal momento che la Corte costituzionale, in sede di giudizio di ammissibilità, ne ha bocciati tre, sicuramente percepiti come più rilevanti: non tanto quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, bensì i due su legalizzazione della cannabis e su eutanasia legale. I quesiti superstiti riguardano tutti la giustizia e sono stati promossi da radicali e Lega, partiti che, probabilmente per problemi con le 500mila firme, hanno depositato in Cassazione la richiesta di nove Consigli regionali a trazione leghista.

Tre quesiti toccano direttamente la vita della magistratura. È stato chiesto agli italiani se vogliono separare le carriere, o per meglio dire le funzioni, di PM e giudici. Gli è stato domandato se hanno intenzione di modificare il sistema elettorale per la componente togata del CSM al fine di indebolire il potere delle correnti. Per fare ciò si punta ad abrogare il requisito delle 25 firme necessarie a un magistrato per candidarsi a rappresentare i propri colleghi. Inoltre, è stato chiesto agli elettori se vogliono che a giudicare i magistrati non siano più solo altre toghe, ma anche professori e avvocati presenti nei Consigli giudiziari. Viste così queste domande, non si capisce perché il cittadino medio dovrebbe comprenderle e interessarsi ad esse. Le questioni essendo molto tecniche e dibattute tra gli esperti necessiterebbero di una sintesi politica in Parlamento, cosa che in realtà si sta provando a fare con la riforma Cartabia, attualmente in discussione. Gli intrecci tra la riforma e i quesiti referendari sono notevoli, e altrettanto gravose e implicite sarebbero le conseguenze, in caso di vittoria del sì, per i partiti che stanno tentando di varare la riforma della giustizia. Dovrebbero tenere conto, per esempio, che il popolo vuole le carriere dei magistrati separate, non ammettendo nemmeno un cambio di funzione nella vita professionale.

Gli altri due quesiti sono più vicini alla vita comune: uno riguarda l’abrogazione del motivo del “concreto ed attuale pericolo di reiterazione del reato” quale giustificante di una misura cautelare; l’altro intende abrogare la legge Severino che fa scattare automaticamente, a seguito di condanna penale, sia l’incandidabilità e l’ineleggibilità alle cariche pubbliche, che la decadenza dalle stesse.

Uso e mal-uso dello strumento referendario

Nel nostro ordinamento l’istituto del referendum riempie un innegabile spazio, fondamentale per dare sfogo alla componente di democrazia diretta presente nella Costituzione del 48’. Idealmente, lo strumento serve a centri di potere distinti dal Parlamento (500mila elettori o 5 consigli regionali) a sottoporre all’intero corpo elettorale la possibilità di abrogare – totalmente o parzialmente – un atto avente forza di legge. Attraverso il referendum, non viene data una forza normativa positiva concorrente al Parlamento all’elettorato, il quale può infatti solo confermare la domanda abrogativa cristallizzata dai proponenti. In una democrazia rappresentativa come la nostra, alla quale sono sconosciuti strumenti di initiative, è il Parlamento che produce nuova legislazione.

Un primo spunto di riflessione è allora se ha senso che un partito presente in Parlamento e in maggioranza, come la Lega, faccia proporre i quesiti da 5 Consigli regionali governati. Il punto è: perché un partito dovrebbe preferire calare dall’alto un quesito piuttosto che trovare un accordo in Parlamento? Ciò può avere un senso solo ove il sistema partitico è così debole e frammentato da non avere la forza per veicolare i propri interessi. Alternativamente, si deve intendere il referendum come uno strumento di pressione nei confronti della maggioranza, e non come uno strumento per interpellare l’elettorato da parte di chi non è in accordo con la legislazione centrale e non siede in Parlamento, dato che per il referendum abrogativo non è ammessa la proposta da parte di 1/5 dei parlamentari, come per quello costituzionale.

Un’altra domanda che ci si pone guardando questa stagione referendaria è posizionata a monte del percorso che si concluderà tra due giorni, precisamente quando la Consulta ha bocciato i tre quesiti. Leggendo le motivazioni dei giudici – in particolare per la questione sulla responsabilità diretta dei magistrati – oltre a trovare conferma la stringente giurisprudenza sull’ammissibilità del referendum, sembra che con questo istituto non si possano introdurre nell’ordinamento principi innovativi, neanche per opposizione a ciò che già esiste e si vuole eliminare.

Ormai il referendum sembra essere costretto dentro confini che rischiano di soffocarlo, un po’ perché utilizzato da partiti deboli per finalità di lotta politica, un po’ per il filtro di ammissibilità che assume contorni molto rigidi e quasi svilenti. A queste condizioni forse sarebbe meglio utilizzare le già esigue risorse disponibili per altro. Una responsabilizzazione dei partiti è quanto mai necessaria: certe questioni vanno affrontate in Parlamento, non essendo possibile mantenere sana una democrazia rappresentativa abusando dei referendum.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

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