8 marzo, oltre la retorica. Serve una rivoluzione culturale

Tra violenza, discriminazioni e compromessi imposti per affermarsi, la questione femminile necessita di un cambiamento radicale. Non bastano quote panda,  leggi e punizioni più severe: serve una rivoluzione culturale che investa l’educazione, il lavoro e la società tutta. Solo così potremo garantire pari opportunità reali e non solo formali.

 

 

Un altro 8 marzo si è consumato, accompagnato dalla consueta retorica e dalle celebrazioni di circostanza, mentre la realtà delle donne rimane tragicamente immutata. Continuano a morire per mano di uomini incapaci di distinguere tra amore e possesso, a sacrificare il proprio talento, a subire in silenzio molestie o, all’opposto, a sottostare a quote rosa e compromessi umilianti pur di ottenere ciò che dovrebbe essere loro garantito in virtù di un principio basilare sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Proprio ieri il Consiglio dei Ministri, per la prima volta presieduto in Italia da una donna, ha approvato un disegno di legge che riconosce il femminicidio come reato specifico, prevedendo l’ergastolo per i colpevoli. È davvero questa la soluzione? Basterà un inasprimento delle pene per fermare la strage silenziosa che si consuma quotidianamente nel nostro Paese? Ricordiamo che dal primo gennaio al 22 dicembre dello scorso anno in Italia sono stati registrati 300 omicidi, di cui 95 avvenuti in ambito familiare o affettivo, con 109 vittime donne, alcune delle quali giovanissime uccise da coetanei, come Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin, cui va il nostro pensiero.

Oggi, in sessanta città italiane, si sono svolti cortei e manifestazioni promossi dal movimento “Non Una Di Meno”, un collettivo femminista e transfemminista capace di mobilitare migliaia di persone e di portare il dibattito sulla violenza di genere nello spazio pubblico, ma che, in sei anni di attività, si fatica a individuare quali proposte concrete che vadano oltre gli slogan e le manifestazioni abbia formulato.

Le domande su cui riflettere e che bisogna porsi sono molte e difficili: come aiutare le donne ai margini della società, sfruttate e sottopagate? Come garantire opportunità reali senza dover ricorrere a quote di genere o a percorsi degradanti? Come permettere alle donne di scegliere liberamente la maternità, senza dover rinunciare al lavoro, alla libertà, all’indipendenza economica? E soprattutto, come sradicare il suprematismo maschilista senza rischiare di creare un nuovo estremismo di segno opposto?

La soluzione non risiede nelle leggi sul doppio cognome o nelle imposizioni di equilibrio di genere nei consigli di amministrazione. Non bastano gli incentivi economici alle aziende: serve una rivoluzione culturale. Un cambiamento profondo, che in passato ha avuto slanci importanti, ma che sembra essersi arenato. Dal 1945, anno in cui alle donne italiane fu riconosciuto il diritto di voto, si sono compiuti passi decisivi: nel 1946 la possibilità di essere elette, nel 1963 l’accesso a tutte le professioni pubbliche, nel 1970 l’introduzione del divorzio, nel 1975 la riforma del diritto di famiglia che ha sancito la parità tra i coniugi, nel 1978 la depenalizzazione dell’aborto. E solo nel 1981, incredibilmente tardi  (va ricordato a chi si erge a esempio di civiltà nei confronti di altre culture), sono stati aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.

Dove siamo oggi? Abbiamo bisogno di un nuovo percorso politico e culturale, capace di tradursi in azioni concrete. E dobbiamo ricominciare innanzitutto a  investire nell’educazione al rispetto reciproco fin dalla prima infanzia, nell’implementazione di asili nido aziendali e di prossimità per supportare le famiglie, nella riorganizzazione del sistema scolastico abolendo le lunghe vacanze che sono un ostacolo insormontabile per chi lavora e ha figli. È inoltre fondamentale spezzare il meccanismo di ricatti e pregiudizi che porta ancora troppe donne a essere viste come un rischio per il datore di lavoro.  Ma è altrettanto necessario educare anche gli uomini alla parità, perché la vera uguaglianza non si realizza contrapponendo i generi, ma costruendo una società in cui entrambi siano protagonisti alla stessa maniera .

Finché non si affronteranno queste questioni con serietà e concretezza, l’8 marzo rimarrà solo una giornata di celebrazione vuota, un rituale privo di impatto reale. Le donne hanno bisogno di azioni che trasformino la loro esistenza quotidiana.

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