Medical Gaslighting: sulla poesia, ovvero la libertà delle parole

di Giulia Catricalà 

“Non vedo nessuna differenza di principio fra una stretta di mano e una poesia”. Quando lessi queste parole di Paul Celan ne restai profondamente colpita. Il poeta abissale, il poeta del divario tra senso e segno si esprimeva in termini così comuni parlando proprio della poesia, la sua ragione d’essere.

In quel periodo provavo a scrivere versi ma sentivo un piede impigliato nella staffa, come se cadendo mi fossi persa qualcosa di importante lungo il tragitto. Il vero problema non era tanto averlo perso, ma non sapere cosa fosse. Mi chiedevo continuamente: perché una stretta di mano? Cosa celava, in verità, la nitidezza di quel pensiero?

Lo avrei scoperto anni dopo, quando, uscita da un calvario di negligenza medica e invisibilizzazione, lessi dei versi di Giovanni Raboni: “Chi parla ha da dire/le cose che dice e forse no/o forse altre. Ma è un fatto che chi tace/lascia che tutto gli succeda e quel ch’è peggio/lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano/a qualcun altro”.

La poesia si intitola “Politica estera” e sicuramente Raboni non intendeva riferirsi alla malasanità e ai ritardi diagnostici per le malattie croniche femminili.

Eppure, mentre leggevo, sentivo che il testo in questione parlava del mio vissuto, dei miei problemi di salute non diagnosticati per anni. Quella era la nostra stretta di mano: il punto di incontro fra chi scrive e chi legge, l’autonomia che ogni poeta accorda alla sua opera.

In effetti, la poesia è tale solo quando esce dalle mani dell’autore, quello è il momento della sua sublimazione. Capii che la stretta di mano non era altro che la veste iridescente e democratica della poesia, il suo significato mai specifico e sempre universale. La poesia non esclude, non emargina, “è di chi gli serve”, come disse Troisi. In quel momento a me serviva proprio quella lirica, infatti mi fu chiaro che non si supera un’ingiustizia seppellendola nel silenzio, perché il silenzio vigila e custodisce, dà forza.

Così ho iniziato a riflettere, attraverso le tante sillogi che leggevo, sul fenomeno che oggi viene chiamato Medical Gaslighting e che consiste nel negare i sintomi di dolore lamentati dalle donne affette da una o più patologie croniche. In questa rubrica ne abbiamo già parlato considerevolmente. Mi colpirono dei versi di Ivano Ferrari: “Terrore che ho della parola/del suo fogliame duro/ del suo tormento a scala verso altrove (…)”.

Possibile che il tormento della parola significasse il suo stesso rifiuto, l’orrore dell’incomunicabilità?

Pensai immediatamente ad Alejandra Pizarnik, la poetessa maldita che più di ogni altra cosa temeva di non poter accendere il vero significato delle parole: “Lei ignora il destino feroce delle sue visioni, lei ha paura di non saper nominare ciò che non esiste”.

Anche il mio malessere non esisteva agli occhi degli altri, anche le mie parole non erano credute. Così ripercorsi tutte le visite mediche, tutte le volte che mi ero spogliata davanti a primari raccontando ogni dettaglio sul mio stato di salute. Mi balenarono in testa dei versi di Bertolt Brecht: “L’hanno vista spogliarsi, adesso lei sa tutto di loro”.

Brecht non parlava di me né delle tante pazienti non ascoltate dai medici, ma durante quelle visite avevo appreso tutto dei miei interlocutori. L’indisponibilità a credermi, il provincialismo delle loro convinzioni -per cui una donna che lamenta dolore sta sicuramente mentendo- mi avevano detto tutto di loro.

La mia esperienza con la sanità mi ha insegnato che ogni volta che prepariamo fiduciosi un discorso e ci accingiamo, con tutte le premure del caso, a raccontare una storia intima- un vissuto particolare- siamo in verità molto più vicini all’improvvisazione che a un confronto meditato.

Comunicare è accettare questo rischio: non potremo mai prevedere quali rimbalzi di significati colpiranno le nostre parole, quale etichette ci verranno affibbiate.

Il linguaggio può essere una prigione o un teatro aperto, ma noi ci troveremo sempre con un canovaccio tra le mani.

Questo potrebbe scoraggiare chiunque si appresti a raccontare qualcosa. La poesia, però, ci insegna che esiste ancora chi è disposto ad ascoltare con indipendenza di giudizio, chi garantisce libertà alle parole ed è effettivamente pronto a una stretta di mano.

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