Addio a Vittorio Emanuele. L’esilio, gli scandali, il ritorno in Italia, la contesa dinastica e il contenzioso sul tesoro della Corona

Si é spento a 87 anni il figlio di Umberto, il re di Maggio e della principessa belga  Maria José. Una vita in esilio , l’accusa di omicidio, l’agognato rientro in Italia, lo scandalo e il carcere

Alle 7,05 di questa mattina si è spento serenamente a Ginevra circondato dalla sua famiglia,  il principe Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto II, l’ultimo re d’Italia, e di Maria José. Avrebbe compiuto 87 anni il 12 febbraio. L’annuncio è stato diffuso attraverso una nota della Real Casa, in cui si specificava che luogo e data delle esequie saranno comunicati appena possibile.

La fine dell’esilio 

Le sue condizioni di salute non erano ormai affatto buone da tempo, il principe da due anni era confinat sulla sedia a rotelle,   e si sono aggravate intorno a Natale tanto da rendersi necessario il ricovero in ospedale. Vittorio Emanuele era nato a Napoli il 12 febbraio 1937 e aveva lasciato l’Italia per la Svizzera da bambino dopo la fine della monarchia dopo il referendum del 2 giugno del 1946, per farvi ritorno solo il 15 marzo 2003,  quando ormai aveva 57 anni, dopo la cancellazione da parte dello stato repubblicano della XIII disposizione finale e transitoria della Costituzione che impediva l’ingresso nel paese agli eredi Savoia.

 

Le nozze 

Marina Doria, campionessa di sci d’acqua, non di nobili natali e per questo non gradita  dalla famiglia, è stata il grande e unico amore della sua vita.  Si sposarono, senza festeggiamenti sfarzosi, prima a Las Vegas e poi, l’anno successivo nel 1971, con rito religioso a Teheran. Hanno avuto un unico figlio Emanuele Filiberto.

IL caso Hamer 

Nel 1978 la vita serena e dorata di Vittorio Emanuele venne all’improvviso stravolta. Il principe fu coinvolto infatti  in un caso di omicidio, dai contorni poco chiari, che cambiò per sempre la sua esistenza e per il quale venne arrestato. Il principe, al quale avevano rubato un  gommone, venne accusato di aver sparato incautamente due colpi di carabina, uno dei quali avrebbe casualmente colpito la coscia di uno studente tedesco di 19 anni , Dirk Geerd Hamer,  mentre dormiva  in una barca vicina, che morì nel dicembre dello stesso anno dopo una lunga agonia. La difesa sostenne che sarebbero stati altri a sparare durante una colluttazione, fuggiti e mai identificati dalla gendarmeria francese. Il calibro e il rivestimento dei proiettili che avevano ferito il ragazzo per altro  risultarono diversi da quelli in dotazione all’arma del principe, che solo nel novembre del 1991 venne prosciolto dal tribunale di Parigi dell’accusa di omicidio volontario e condannato a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo d’arma da fuoco, “fuori dalla propria abitazione”.

Gli altri scandali 

Non solo il caso Hamer. Vittorio Emanuele è stato al centro anche di altri scandali. Sempre negli anni ‘70 venne indagato per traffico internazionale di armi verso  paesi mediorientali che erano sotto embargo. L’indagine finì con un’archiviazione.  Il principe era intermediario d’affari per conto della Agusta e, grazie all’amicizia con lo scià di Persia Reza Pahlavi, proprio in quegli anni si era occupato della compravendite di elicotteri tra l’Italia, l’Iran e altri paesi arabi. Il suo nome comparve anche nella lista della P2.  E non solo. Qualche anno dopo il suo rientro in  Italia, era il 16 giugno 2006,  venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta Vallettopoli, su ordine del Gip del Tribunale di Potenza, e su richiesta del pubblico ministero Henry John Woodcock per  associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al falso, e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione nell’ambito di un’indagine legata al casinò di Campione d’Italia. Un’altra vicenda lunga, infamante e dolorosa dalla quale é stato assolto il 23 febbraio 2015, ottenendo anche  un risarcimento di 40.000 euro per i giorni trascorsi in cella da innocente.

Disputa dinastica 

Amedeo Savoia Aosta

Erede di un trono non piú esistente, il 15 dicembre del 1969, dinanzi al rifiuto del padre di acconsentire alle nozze con Marina Doria,  perché in contrasto con le leggi sabaude che imponevano al futuro sovrano di di sposare una nobile, si proclamó re d’Italia e capo della dinastia,  equiparando la partenza di Umberto nel 1946 per l’esilio ad una abdicazione di fatto. Un atto il suo che ebbe come conseguenza immediata quella di allontanarlo ancor di piú dal genitore, alimentando indiscrezioni secondo le quali il sovrano avrebbe passato lo scettro al nipote Amedeo di Savoia Aosta, che aveva sposato la principessa Claudia d’Orleans,  nominandolo prima di morire capo della casata e consegnandogli i massimi simboli della sua maestá, ossia il sigillo reale, che c’é anche chi sostiene che Umberto avrebbe spezzato,  e il collare dell’Annunziata a lui personalmente appartenuto. Ne é scaturita una disputa che ha diviso e ancora divide l’aristocrazia italiana. Ma sta di fatto che sull’ Annuario della nobiltá italiana alla voce “Real Casa di Savoia”, di Vittorio Emanuele si rimarca l’avvenuta perdita di tutti i titoli dinastici dopo il matrimonio con Marina Doria del 1970, titoli di contro attribuiti ad Amadeo, e per quanto riguarda suo figlio Emanuele Filiberto non viene indicato alcun titolo nobiliare.  A disconoscere le pretese di Vittorio Emanuele a favore di suo cugino é stata nel 2006 la Consulta dei Senatori del Regno, la più alta autorità monarchica costituita proprio da re Umberto mentre era in esilio nel 1955, mai sciolta, ma  disconosciuta dal figlio nel 2002.

I gioielli della Corona

Intanto andrá avanti la battaglia legale dinanzi al tribunale civile di Roma promossa dinanzi al tribunale civile di Roma da Vittorio Emanuele insieme alle sorelle Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice, per chiedere la restituzione alla famiglia del tesoro della corona, che re Umberto  nel 1946 prima di lasciare l’Italia dispose fosse consegnato alla Banca di Italia che tutt’ora lo custodisce nei suoi caveaux per mano dell’avvocato Falcone Lucifero, ministro della Real Casa insieme al Grande Ufficiale Livio Annesi, direttore capo della ragioneria dello stesso ministero. I gioielli furono portati presso i locali della Banca d’Italia di via Nazionale n. 91 il 5 giugno alle ore 17, tre giorni dopo il referendum che abolí la Monarchia, “per essere tenuti a disposizione di chi di diritto”. Venne redatto anche un inventario del contenuto del cofanetto in pelle a tre piani protetto da 11 sigilli e affidati al governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi .

Nei caveaux della Banca d’Italia 

Nel prezioso scrigno foderato di velluto azzurro Savoia  sono custoditi numerose gioie, tra cui figura un grande diadema a undici volute di brillanti, attraversato da un filo di perle orientali, che negli spazi inferiori ha perle incastonate, in quelle superiori gocce di brillanti incastonati, indossato dalla regina Margherita e dalla regina Elena. Un tesoro, che i Savoia vorrebbero fosse esposto al pubblico, e che solo una volta dopo il 1946 ha rivisto la luce. Il cofanetto che lo contiene è stato riaperto nel 1976 per ordine della Procura di Roma che, a seguito di un articolo pubblicato dal giornale Il Borghese, verificó che non fosse scomparso alcun pezzo, come era stato invece ventilato.

La testimonianza di Einaudi

E’ interessante leggere cosa scrisse Einaudi sulla decisione di Umberto di affidargli quei gioielli. “Il Re mi riceve come al solito e forse un po’ più serio, e mi comunica che in conseguenza degli avvenimenti egli desidera che le gioie così dette della corona non vadano immediatamente in mano ad un commissario, il quale potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari farne una distribuzione od un’assegnazione non conforme all’importanza storica delle gioie stesse. Me le fa vedere racchiuse in un cofano a tre piani. Trattasi delle gioie le quali erano portate dalle regine e dalle principesse di casa Savoia. Vi è il celebre diadema della Regina Margherita, accresciuto e portato poi dalla Regina Elena. Vi sono altri monili, fra cui mi cita quelli della principessa Maria Antonia (…) Egli desidera che esse siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto. La mia impressione è che egli dia dimostrazione di molto scrupolo, in quanto che potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale. Ad ogni modo il Re dice che di ciò potrebbe essere giudice l’autorità competente e che egli desidera che le gioie siano tenute a disposizione di chi di diritto”. Il 6 giugno, il giorno successivo, Einaudi chiese di essere ricevuto dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, a cui riferire. E a tal proposito annotó:  “De Gasperi è evidentemente preoccupato. Si pone adesso il problema di che cosa sarà la Repubblica che si è voluta instaurare. L’impressione sua è anche quella che il Re abbia dimostrato grande scrupolo potendosi sostenere la tesi che le gioie siano cosa di famiglia e non del demanio dello Stato (…). De Gasperi conferma anche a me le sue impressioni di stima verso la persona del Re, il quale ha dato prova in questi due anni di leale osservanza delle norme costituzionali. Se a casa Savoia poteva in passato essere rimproverata la mancanza di fede, prognostici simili non potevano essere fatti per il Re Umberto II”.

Draghi e la richiesta della regione Piemonte

Nel 2006 la Regione Piemonte chiese di potere esporre il Tesoro della Corona in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino. Il deputato piemontese, Raffaele Costa, scrisse all’allora governatore della Banca di Italia, Mario Draghi, che in un primo momento sembró accogliere la proposta alla fine respinte “in considerazione della delicatezza della materia e della complessità del relativo quadro giuridico”.

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