Afghanistan: il terrorismo alligna, l’incertezza regna mentre Usa ed Europa evacuano

World Reporting di Gianni Perrelli

Con l’abbandono degli occidentali in concomitanza del ventennale dell’11 settembre, la patria prediletta del terrorismo islamico si appresta a vivere una nuova drammatica fase ancora macchiata di sangue

 

L’ennesima strage addensa le tensioni sul futuro dell’Afghanistan, paese straziato da quasi mezzo secolo di guerre ad alta o bassa intensità (due milioni di morti, otto milioni di profughi), brodo di coltura dei terrorismi islamici che hanno inferto colpi mortali all’Occidente. Una delle migliaia di bombe sbucate dagli infiniti arsenali che tormentano la quotidianità provoca in una scuola di Kabul la morte di cinquanta studentesse della minoranza hazara (sciita). Nella fatalistica rassegnazione di un lutto velocemente metabolizzato scatta il tam tam delle accuse incrociate. Il debole presidente Ashraf Ghani, esponente della comunità Pashtun (maggioritaria) accusa della carneficina i talebani che secondo i confusi accordi raggiunti 14 mesi fa con gli Usa dovrebbero dividere il potere con il governo eletto.

I talebani negano ogni responsabilità, puntando il dito accusatore sulle frange superstiti dell’Isis ancora attive nella provincia di Khorasan che mesi fa rivendicarono l’uccisione di quattro giornaliste. Sullo sfondo si agitano anche i sospetti su ciò che resta di Al Qaeda, influente fino alla scomparsa dieci anni fa di Osama Bin Laden ed oggi quasi in sonno. Con il Gru, branca dei servizi segreti russi, che secondo il New York Times intorbida ancor più le acque finanziando i talebani più irriducibili.

E con gli Stati Uniti in ritirata che dopo oltre vent’anni di presenza militare gettano la spugna ed annunciano entro l’11 settembre (ventennale dell’attentato contro le Torri di New York) il richiamo delle truppe (circa 3 mila soldati). Joe Biden, non diversamente da Donald Trump, riconosce non più sostenibile il prezzo pagato per il protettorato sostanzialmente fallito della democrazia in Afghanistan (in 20 anni circa duemila soldati morti e 20 mila feriti). Allunga solo i tempi del ripiegamento, che erano previsti per questo maggio, nella speranza probabilmente illusoria di consolidare un trattato di pace fra le varie fazioni su basi meno precarie.

L’America non se ne va con la coda fra le gambe come fece nell’89 l’Armata Rossa. Ma l’abbandono statunitense conferma l’impossibilità per le grandi potenze mondiali di mettere ordine nel ginepraio di etnie e di confessioni religiose che minano l’instabilità. L’Afghanistan non è assoggettabile come una colonia neanche dagli eserciti più poderosi del pianeta.

Dal prossimo autunno il paese (38 milioni di abitanti) rischia di rimanere in balia di tre centrali del radicalismo sunnita in concorrenza fra loro verso cui il governo centrale di Kabul, che rimarrà privo di sostegni esterni (smobiliteranno anche le truppe italiane dalla base di Herat), sembra avere le mani legate. Tre cupole prive da tempo di leadership carismatiche. Dopo la morte del mullah Omar il comando dei talebani, gli studenti coranici che governarono dal ’96 al 2001 sprofondando con l’applicazione rigida della sharia la società civile nel Medio Evo, è stato rilevato dalla shura di Quetta (città pachistana ai confini con l’Afghanistan) che ha designato ai vertici autorità sbiadite e defilate.

Dell’ultimo capo, Hibatullah Akhundzada, all’inizio dell’anno si era sparsa la voce che fosse morto di Covid. Per Al Qaeda non si sa ufficialmente se è vivo o morto neanche Ayman Al Zawahiri, il medico egiziano successore di Bin Laden: voci mai confermate segnalano che sarebbe deceduto per un attacco di asma l’anno scorso, Ancor più oscura la catena di comando dell’Isis, su cui sono confluiti i gruppi talebani più intransigenti: l’ultimo capo riconosciuto, Abdul Hasib, è morto nel 2017 in uno scontro con l’esercito regolare di Kabul.

L’Afghanistan vive immerso in una cappa di terrore questo passaggio d’epoca battezzato dai bagni di sangue. Dopo la fine delle trattative con Washington la catena degli attentati si è drammaticamente intensificata. Il bilancio ufficiale del 2020 fa ammontare a 6-7 mila il numero delle vittime. Nel mirino soprattutto i licei e le università. Cioè i templi di incubazione di una modernità non ammissibile dai principi più fondamentalisti del Corano. Ma a farne le spese sono anche gli ospedali (come quello a Kabul di Medecins Sand Frontières) che prendono in cura le minoranze sciite. Blindate le aree che ospitano i centri del potere ufficiali, le ambasciate, gli alberghi frequentati dagli occidentali. L’atmosfera è tornata cupa come ai tempi dell’attentato a leader tagico Ahmad Massoud che, quasi come un segno premonitore, precedette nel 2001 di soli due giorni il crollo delle Due Torri. Costantemente minacciati (se non braccati), giornalisti, attivisti, politici liberali, esponenti di un femminismo in embrione che lottano a volte con successo per libertà elementari come la possibilità per le ragazze di cantare in pubblico al di sopra dei 12 anni.

I fermenti di una società che a passi incerti ma coraggiosi tenta di liberarsi dagli odiosi gioghi di un Islam ostile a ogni forma di progresso continuano a scontrarsi contro l’arroganza dei mullah che si ritengono depositari unici della verità. Fra le donne solo le più coraggiose osano concedersi stili di vita ammiccanti nella cultura e nei costumi ai modelli occidentali. Il tasso di analfabetismo femminile, che era quasi imposto al tempo dei talebani (oltre gli 8 anni le bambine non potevano più andare a scuola né avere contatti con maschi se non parenti), supera ancora l’80 per cento e solo il 30 per cento delle adolescenti continua a studiare dopo i 12 anni. L’emancipazione femminile marcia ancora troppo a rilento. Il 70 per cento dei matrimoni è combinato e solo 4 mila donne hanno la patente di guida.

Nelle sterminate campagne l’oscurantismo è ovviamente ancor più diffuso. Intorno a Bamiyan, dove nel 2001 i talebani abbatterono due gigantesche statue di Buddha in dispregio di qualsiasi altra fede, incombe ancora l’atmosfera da secoli bui in cui chi scrive si trovò di colpo sbalzato dopo aver abbandonato la strada principale che da Kabul si distende verso Nord per inoltrarsi verso le incantate gole dell’alta montagna.

I talebani, interessati ai finanziamenti di Washington in cambio di rinunce ai divieti più irragionevoli, hanno promesso a Washington di non puntare al monopolio del potere anche se intendono ritoccare i principi costituzionali nella loro visione più audaci. E, in linea di massima pure di rispettare il diritto all’istruzione delle donne e forse all’obbligo di indossare il burqa. Ma né il tragico passato né il turbolento presente depongono a favore della loro credibilità. L’Afghanistan, senza più la cintura di sicurezza degli Stati Uniti, rischia di fare un salto indietro di 20 anni. E l’Occidente di dover tenere le antenne dritte contro la possibile proliferazione di nuovi estremismi minacciosi della stabilità internazionale.

E’ ancora troppo fragile la spinta verso le istituzioni democratiche. Pur in una cornice in cui ha messo anche qui radici la tecnologia e l’attrazione fatale dei social. Se può servire da buon auspicio è interessante sottolineare che anche i talebani fanno largo uso di twitter e whatsapp. Soprattutto per scambiarsi informazioni sul Covid, flagello ufficialmente contenuto ma forse solo perché in Afghanistan come molte altre cose scarseggiano gli strumenti di rilevazione.

Gianni Perrelli

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