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Crisi di Gaza: nell’abbisso di una nuova guerra israelo-palestinese

La svolta nel conflitto israelo-palestinese sconvolge l’ordine geopolitico globale: indeboliti Israele e il suo primo ministro Netanyahu, mettendo di fatto a rischio i negoziati con l’Arabia Saudita per gli Accordi di Abramo, come allo stesso tempo Biden in vista delle elezioni del 2024.

di Gianni Perrelli

Nell’abisso in cui l’esplosione della nuova guerra israelo-palestinese ha precipitato gli equilibri della geopolitica internazionale si staglia una sola certezza. Che il conflitto sia di lunga o di breve durata, che porti o meno alla liberazione degli ostaggi nei cunicoli sotterranei della Striscia, che sfoci o no nello sradicamento di Hamas, l’assetto mondiale ne uscirà sconvolto. Molto più di quanto sia avvenuto con l’invasione russa dell’Ucraina. L’onda lunga della riesplosione di odio che in un fazzoletto di terra divide i due popoli in Terra Santa produrrà ricadute profonde, coinvolgendo molti più attori dei due eserciti che oggi si combattono con ferocia. Minacciando fin dalle prime fasi l’estensione degli scontri sul fronte Nord, con il temuto intervento dal Libano di Hezbollah e perfino dell’Iran. Un’ipotesi terrificante, possibile preludio addirittura di una nuova guerra mondiale.

La prima conseguenza si è fulmineamente concretizzata con il congelamento dei negoziati fra Gerusalemme e Riad per l’ingresso dell’Arabia Saudita nell’ambizioso progetto degli Accordi di Abramo. Un disegno patrocinato dagli Stati Uniti fin dai tempi di Donald Trump che ha già schiuso le relazioni diplomatiche e di cooperazione di Israele con Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Con il riconoscimento della sovranità di Israele (già accettata nel mondo arabo da Egitto e Giordania) ma con l’accantonamento virtuale della questione palestinese relegata in secondo piano. Dopo gli orrendi massacri perpetrati da Hamas il 7 ottobre e la furibonda reazione dell’esercito israeliano contro Gaza, le reazioni delle piazze arabe a sostegno della Palestina hanno paralizzato un processo di ristrutturazione del Medio Oriente cha rischiava di emarginare definitivamente e ambizioni di indipendenza di un popolo. Per molti politologi Hamas avrebbe accelerato la sua sfida terroristica proprio per far naufragare gli Accordi che avrebbero ridotto i palestinesi al rango di pallide comparse.

In prospettiva la posizione che più traballa è quella di Benjamin Netanyahu, il premier israeliano già in bilico dopo le durissime contestazioni di piazza contro una riforma della giustizia che – grazie all’appoggio dei partiti ebrei ultraortodossi nel suo governo di estrema destra – limiterebbe i poteri della Corte Suprema e avrebbe come obiettivo proprio l’immunità del primo ministro sotto processo per corruzione e frode. Netanyahu deve la lunga permanenza al vertice alla convinzione che con la sua intransigenza fosse il leader più adatto ad assicurare la sicurezza di uno Stato democratico ed evoluto ma esposto a mille insidie. La mattina del 7 ottobre l’orribile assalto di Hamas ha disintegrato questa certezza. Al punto da costringere il premier a formare in tutta fretta un governo di unità nazionale inglobando proprio i leader di altre fazioni che più lo contestavano e ridimensionando il ruolo dei suoi ministri più fanatici.

Le speranze di sopravvivenza politica di Netanyahu rimangono appese a un’azione militare che porti nella Striscia allo sterminio del nemico. L’obiettivo non è il popolo palestinese ma Hamas, l’organizzazione politico-militare supportata dagli aiuti finanziari del Qatar che ha conquistato il potere a Gaza nelle elezioni del 2007 e per la sua radicalità non viene riconosciuta dal governo di Gerusalemme. E, non riconoscendo a sua volta Israele, non ha remore a ricorrere al terrorismo per condurre la sua jihad e tentare di imporre il suo dominio anche nella Cisgiordania, l’altro braccio dei territori palestinesi governati dall’Autorità Nazionale Palestinese (entità politica ormai esangue guidata da quasi novantenne Abu Mazen).

Se Netanyahu distrugge Hamas non riuscirà comunque a liberarsi di una questione palestinese che divamperà con maggior furore nelle piazze arabe in proporzione al grado di violenza esercitata. E si riproporrà, inevitabilmente, con altri leader e altre forme di resistenza o azioni diplomatiche più incisive anche su teatri diversi da Gaza. Il premier non riuscirà ad evitare neanche il regolamento di conti interno reclamato dagli israeliani che non sopportano più l’arroganza con cui lui gestisce il potere e hanno perso fiducia anche nelle sue capacità di salvaguardare la sicurezza nazionale. Già con la controffensiva ancora in corso i sondaggi segnalano che Netanyahu avrebbe i giorni contati. Scalzato negli indici di gradimento dal generale Benny Gantz che in passato aveva siglato con lui un patto fallito di alleanza e lo sta adesso (solo provvisoriamente) aiutando nell’operazione di vendetta contro Hamas.

Anche Joe Biden, in vista delle elezioni presidenziali del novembre 2024, potrebbe risentire dei contraccolpi di immagine, ma anche di efficacia nel curare gli interessi americani nel labirinto del Medio Oriente, a causa del blocco degli accordi di Abramo. Un passo falso indotto di cui potrebbe approfittare non solo Donald Trump ma anche XI Jinping nell’ossessione cinese alla corsa per la supremazia mondiale.

La nuova guerra in Medio Oriente fa scemare intanto l’attenzione sulla guerra in Ucraina, già circoscritta dalla stanchezza dell’opinione pubblica dopo oltre un anno e mezzo di durissimi scontri da cui è scaturita solo una situazione di stallo. La Nato continua a sostenere Zelensky ma i paesi che lo spalleggiano stanno riducendo le forniture. La stessa America, ora più concentrata a protezione di Israele sullo scacchiere mediorientale, sta ridimensionando l’impegno sotto la spinta dei repubblicani. E se alla Casa Banca dovesse mai tornare Trump quasi sicuramente Zelensky verrebbe abbandonato al suo destino.

Torna simultaneamente e sorprendentemente a crescere l’indice di influenza di Vladimir Putin che da reietto (sarebbe arrestato su ordine della Corte Penale Internazionale in 123 paesi per la deportazione in Russia di migliaia di bambini ucraini) potrebbe diventare un mediatore del conflitto medioorientale. Lo zar del Cremlino è infatti in grado di dialogare con tutti i protagonisti coinvolti.

A partire da Israele: è in relativi buoni apporti con Netanyahu, neutrale nel conflitto ucraino, a cui concede i raid sulla Siria di Bashar Assad (oggi quasi un protettorato di Mosca) contro le forniture militari di Teheran agli Hezbollah libanesi in transito per Aleppo e Damasco; ha contemporaneamente stretti legami con Teheran sostenitore di Hamas che gli vende i droni per la guerra in Ucraina; ha storicamente e ideologicamente a cuore la causa palestinese; ha intensi rapporti di scambi commerciali con l’Egitto di Al Sisi da cui dipende l’apertura del valico di Rafah per l’esodo dei rifugiati di Gaza; e ha un dialogo costante con Recep Tayyp Erdogan, il presidente turco che cerca di tenere i piedi in più staffe, barcamenandosi fra Oriente e Occidente, dividendo con lui lo sforzo di dimostrare la superiorità dell’autocrazia sulla democrazia nell’inseguimento di un nuovo ordine mondiale.

Per Putin, che a marzo punta alla riconferma nelle elezioni presidenziali, la guerra israelo-palestinese è una boccata di ossigeno anche perché con l’aiuto del generale inverno che frena le azioni militari l’Ucraina per molti mesi perderà attrazione mediatica. Può essere apparso cinico e perfino paradossale il suo appello alla pace. Ma, nonostante sia accusato di genocidio per l’Ucraina, in Terra Santa è la personalità che ha più chances per riportare gli irriducibili nemici a un tentativo di nuovi negoziati.

Lo stesso Xi Jinping, che dopo una prima fase di neutralità si è espresso a favore della questione palestinese, potrebbe beneficiare del nuovo conflitto. In primo luogo, come si è detto, per l’indebolimento sia pur parziale di Biden che lo tratta da dittatore pur se dovrebbe incontrarlo a novembre negli Stati Uniti. Ma anche perché il presidente cinese potrebbe essere tentato di accentuare la pressione su Taiwan. Nella presunzione (o illusione) che gli Stati Uniti, impegnati a seguire militarmente due fronti (Medio Oriente e Ucraina), non avrebbero sufficiente energia per accorrere in soccorso anche dell’isola rivendicata da Pechino a cui hanno sempre promesso sostegno.

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