Elezioni americane, valenza mondiale. Dal voto ricadute globali come mai in precedenza

Si scontrano non solo due irriducibili avversari (anzi nemici dal punto di vista di Trump) ma soprattutto due visioni antitetiche e inconciliabili della grammatica politica, della società e perfino del galateo istituzionale

 

di Gianni Perrelli

Quelle del 5 novembre saranno elezioni mondiali più ancora che americane. Perché nella prossima sfida per la conquista della Casa Bianca l’esito produrrà ricadute in tutte le aree del pianeta in una misura mai toccata in precedenza. Al punto da rendere meno stralunata e  fantapolitica la tesi di chi sostiene che a concorrere alla nomina del presidente degli Stati Uniti dovrebbero essere tutti i cittadini almeno dei paesi in cui vige la democrazia.

Un fatto è già acclarato. Le conseguenze saranno abissalmente divergenti a seconda che vinca Donald Trump o prevalga Kamala Harris (sarebbe la prima donna ad assurgere alla Casa Bianca). Si scontrano infatti non solo due irriducibili avversari (anzi nemici dal punto di vista di Trump) ma soprattutto due visioni antitetiche e inconciliabili della grammatica politica, della società e perfino del galateo istituzionale. Autocrazia etichettata come democrazia illiberale e con larvate tentazioni di dittatura (Trump) contro difesa della democrazia classica (Harris). Protezionismo in economia (Trump) contro mantenimento degli interscambi tradizionali (Harris). Populismo a sostegno economico dei forgotten men trascurati dalle élites nell’America più profonda (Trump) contro l’impegno a favore delle minoranze, dei diritti sociali, della valorizzazione del genere femminile e della cultura woke (Harris). Campagna urlata e straboccante di insulti (Trump) contro repliche meno sguaiate ma non meno aggressive che puntano l’indice sulla condanna incassata dall’ex presidente e sui suoi bassi standard di moralità (Harris). Una contesa serrata, dal risultato incerto e imprevedibile, fra due Americhe che non hanno punti di contatto e rifiutano ogni scorciatoia di mediazione. E che obbliga i governi di tutto il mondo ad attrezzarsi per affrontare due scenari sui temi più nevralgici dell’attualità internazionale.

GUERRE

Trump promette che risolverà con uno schiocco di dita il conflitto in Ucraina che si trascina da due anni e mezzo senza concrete prospettive di tregua. Ma per portare in 24 ore a un tavolo negoziale Vladimir Putin bisognerà riconoscergli l’assegnazione dei territori invasi e conquistati e l’assicurazione che Kiev non entrerà mai nella Nato. In pratica, anche se il progetto-blitz originario era quello di annettersi con l’insediamento di un governo fantoccio l’intera Ucraina, significherebbe dare piena ragione all’invasore. Vanificando lo sforzo bellico del paese aggredito e l’aiuto in armamenti e strategie erogato principalmente dagli Usa e dall’Europa. Oltraggiando le perdite in dimensioni spaventose di vite umane. Svalutando i danni incalcolabili di intere città distrutte e le tragedie della popolazione civile. In caso di capitolazione repentina determinata dall’interruzione degli aiuti di Washington l’Ucraina verrebbe smembrata (parte occidentale avviata ad entrare nell’Unione europea, Donbass e Crimea consegnati alla Russia). E il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sarebbe costretto a dimettersi. Ma a quel punto che farebbero la Nato (depotenziata dall’avvento di Trump) e l’Europa che tanto strenuamente hanno sostenuto la resistenza di Kiev? Si rassegnerebbero ad uscire in silenzio di scena versando amare lacrime sul fallimento dell’ingente sforzo militare e finanziario? O, nel timore che Putin ringalluzzito dal successo sia tentato di puntare su altri obiettivi (Paesi baltici, Moldavia), si riorganizzerebbero – magari anche con la costituzione di un esercito europeo – per creare nuovi argini contro l’imperialismo di Mosca? E quante possibilità ci sono che le opinioni pubbliche occidentali – stanche della guerra e sempre meno disposte a morire per Kiev – assecondino un disegno che per le urgenze militari distoglierebbe risorse dai piani di progresso civile?

Se vince la Harris continuerà più o meno come sotto Biden. Si cercherà di mettere Zelensky in condizione di preparare una controffensiva che, minacciando il territorio russo, potrebbe però provocare una ritorsione nucleare. In ogni caso il conflitto non può durare in eterno: fra il XIV e il XV secolo fini anche la guerra dei cent’anni fra i Regni di Inghilterra e di Francia. Ma per accelerare una soluzione diplomatica occorrerebbe un impegno maggiore della Cina (a cui si è già rivolta l’Ucraina): l’unica superpotenza in grado di portare a più miti consigli la Russia, la cui economia vacillante dipende in misura decisiva dall’appoggio di Pechino.

Su Gaza, se la spunta Trump, naufragherà per l’ennesima volta il miraggio dello Stato palestinese. E in Israele sarà più difficile liberarsi e portare alla sbarra Benjamin Netanyahu. Che per non perdere il potere prima dell’ingresso (dal premier israeliano auspicato) del suo vecchio amico alla Casa Bianca sta aprendo dopo la strage di Majdal Shams un altro pericoloso fronte bellico contro gli Hezbollah libanesi finanziati da Teheran. Contemporaneamente cercherà di rialzare le sue quotazioni accelerando il disegno degli Accordi di Abramo, pur incontrando inevitabili ostacoli dopo i massacri nella Striscia.

Se vince la Harris, che è sposata con un ebreo, non verrà ovviamente meno il sostegno storico degli Usa a Israele ma, al di là della ferma e scontata condanna di Hamas, non saranno accantonate le legittime rivendicazioni di indipendenza del popolo palestinese. E forse il sempiterno Netanyahu sarà spinto fuori dalla scena.

GEOPOLITICA

Se vince Trump gli Stati Uniti distenderanno le relazioni con la Russia e la Cina (per il tycoon Putin e Xi Jinping sono due esempi di leader coraggiosi e decisionisti). E il governo di Pechino sarà incoraggiato a velocizzare i preparativi per l’annessione di Taiwan, calcolando che gli Usa probabilmente si disinteresserebbero dell’invasione. Riappariranno certamente in cartellone le poco più che folcloristiche sceneggiate con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. E si inasprirà la tensione con l’Iran. Mentre Washington si allontanerà dall’Europa e anche dalla Nato a meno che i Ventisette non si decidano ad allargare i cordoni della borsa per pareggiare in proporzione al numero di abitanti i fondi garantiti dagli Usa.

Se alla Casa Bianca entra la Harris non saranno allentati i vincoli con l’Europa. Verranno confermate, se non incrementate, le sanzioni contro Putin. Si riaprirà una finestra di dialogo con l’Iran dove si è appena insediato Masoud Pezeshkian, un presidente apparentemente moderato. E continuerà la sfida per la supremazia mondiale con la Cina. Che dovrà mettere in conto un intervento dell’America nel caso di aggressione a Taiwan.

ECONOMIA

Con Trump “America first”. E quindi protezionismo ad oltranza anche se la Casa Bianca non potrà sottovalutare il gigantesco intreccio di affari che impedisce un distacco totale dalla Cina. E rapporti raffreddati con l’Europa. Con Kamala “business as usual”. Relazioni stabili con l’Europa. E attenzione rinforzata contro la penetrazione cinese nel Sud del mondo.

CLIMA

Trump ha già annunciato che annullerà tutti gli impegni sottoscritti dall’America in materia di clima. E’ ostile alle politiche ambientali e lancerà un piano massiccio di trivellazioni in favore dell’industria. Kamala si rende conto che la situazione sta diventando insostenibile. Se non si può esagerare con le politiche green per non frenare l’economia (l’esigenza di oggi) è assolutamente urgente rallentare la corsa folle verso l’apocalisse ambientale (esigenza di domani, del mondo che erediteranno i nostri figli).

E SE…

Poniamo il caso che Trump, considerato sicuro vincitore fino al ritiro di Biden, perda magari di misura. Pensate che, a differenza del 2020, non rigetterà il verdetto delle urne, denunciando più meno fantomatici brogli? E che, ancora a differenza del 2020, non farà nulla per placare la rabbia delle legioni di fans che – confortati anche dagli orientamenti assolutori di una Corte Suprema addomesticata – lo considerano un messia? Il tycoon ha già detto che se non dovesse vincere scorrerebbe il sangue per le strade. C’è anche il rischio, a meno che non intervenga prontamente il Pentagono, che le elezioni del 5 novembre sfocino in una guerra civile.

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