Elezioni europee, quale futuro dopo la vittoria delle destre e dell’astensione

La convergenza di due alte maree, astensionismo e onda nera, rende incerto la navigazione dell’Europa e indebolisce la democrazia. Dalle urne che pur prefigurano sia pur in forma più ristretta la tenuta a Bruxelles dell’alleanza fra le forze tradizionali (popolari, socialisti, liberali con possibile nuovo supporto dei verdi e/o quello eventuale di Giorgia Meloni) sbucano ingigantite e minacciose le ombre lunghe della disaffezione verso le liturgie elettorali e della crescita delle ideologie di estrema destra che avevano avvelenato la storia del Novecento. Legioni di famiglie impoverite e di giovani senza lavoro, iconicamente rappresentate dalla figura del forgotten men, voltano sfiduciate le spalle al sistema. O rifugiandosi nella sfera illusoria del disinteresse, senza tener presente che se loro non si occupano di politica la politica non smetterà di occuparsi di loro. O affidando i destini personali nelle mani di un uomo (o di una donna) forte perché stufi degli estenuanti riti della democrazia con tutti i suoi pesi e contrappesi. Scappatoie, entrambe, che rischiano di sfociare nel terreno scivoloso delle restrizioni delle libertà e dei diritti.

Se su scala continentale il successo ha arriso indiscutibilmente ai populismi di destra più marcati, nell’alambicco della politica politicante ha buone possibilità di venire confermata ai vertici della Commissione la spitzenkandidat dei popolari Ursula von der Leyen. Che alla vigilia delle elezioni sembrava un po’ emarginata da una serie di errori e dalle perplessità del presidente francese Emmanuel Macron che puntava sulla figura più autorevole di Mario Draghi. Ma dopo lo tsunami che ha sconvolto la politica transalpina, inducendo Macron a convocare in fretta e in furia le elezioni anticipate nel tentativo quasi disperato di arginare l’ascesa di Marine Le Pen, la Francia non ha più la forza per distribuire le carte. E non ce l’ha neanche la Germania, l’altra locomotiva d’Europa, dove il partito socialista del cancelliere tedesco Olaf Sholtz ha racimolato meno voti del partito neonazista. Lo stesso partito popolare, risultato primo nel gradimento degli europei, si trova nella paradossale situazione di non avere nessun suo esponente a capo dei principali governi del continente. Più in generale l’unico governo che ha riscosso credito alle urne è stato quello italiano di Giorgia Meloni. Che, pur da posizioni fortemente conservatrici e con forti pulsioni sovraniste all’interno della sua coalizione, bilanciate però dall’affidabilità conquistata con la ferrea adesione all’atlantismo. potrebbe diventare l’ago della bilancia nelle complicate manovre per il varo della nuova Commissione. Sempre che riesca a superare i veti della galassia socialista –  seconda classificata, imprescindibile per la formazione di qualsiasi governo e almeno a parole indisponibile ad accordi con le destre –  in cui la componente maggiore è guarda caso proprio il partito democratico in netta ripresa di Elly Schlein.

Le elezioni europee hanno ancora una volta ribadito la frattura ormai consolidata fra i centri urbani dove dominano le forze progressiste e le campagne più legate all’area della conservazione. L’esempio più clamoroso è Milano, dove il Pd sopravanza di una decina di punti Fratelli d’Italia che pur ha nettamente confermato la propria supremazia su scala nazionale. Ma, al di là dello iato che separa i vincitori dai vinti, la vera sfida è ora quella di indirizzare verso uno dei due sentieri l’Europa che slitta verso destra e si trova davanti a un bivio. Certo, avranno scarsa influenza sugli equilibri continentali le formazioni più radicali come i neonazisti tedeschi dell’’Afd. Anche se la loro ascesa, ridestando antichi incubi, non può non preoccupare. Usando una metafora è come se dopo i festeggiamenti per lo sbarco in Normandia una fetta d’Europa avesse detto all’America: “Ottant’anni fa potevate rimanere a casa, era inutile che vi disturbaste”.

Rientrando in tema, di fronte a problemi enormi come il dramma delle migrazioni, l’incubo della crisi climatica, l’irresistibile ascesa dell’intelligenza artificiale che minaccia i posti di lavoro- tutte insidie che ricadranno soprattutto sulle spalle delle nuove generazioni – occorre scegliere con chiarezza fra due opzioni. Dare fiducia a un’entità soprannazionale che eccederà pure nella pignoleria di astrusi regolamenti ma che su questioni di enorme rilievo come la gestione dalla pandemia o la distribuzione delle risorse della ripresa (Pnrr) si è rivelata tempestiva e provvidenziale? O cedere alle sirene dei sovranismi tornando alle suggestioni delle piccole patrie? In altri termini realizzare in pieno il processo federativo delineato dal manifesto di Ventotene, approdando a un esercito e a un bilancio comune, o ridimensionarlo a un accordo di libero scambio alla mercé dei singoli interessi nazionali?

Sia il leader russo Vladimir Putin che quello cinese Xi JinpIng, nella convinzione che la nostra sia ormai una civiltà sfibrata, tifano e brigano per la seconda soluzione. E già le loro mosse sarebbero un’ottima ragione per scegliere la prima. Lo stesso Donald Trump, se sarà rieletto, per la sua mentalità ipernazionalista (America first) avrebbe più interesse a trattare con un’Europa disarticolata a cui già dalla Casa Bianca rinfacciava gli avari contributi per le spese della Nato. Con due guerre vicine ancora in corso e tensioni che rischiano di esplodere in ogni angolo del pianeta c’è assoluto bisogno di un’Europa, sia finanziariamente che militarmente, più forte e più coesa.

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