Quello fra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris prima ancora che uno scontro fra conservatori e progressisti è un duello metaforicamente (così si spera) all’ultimo sangue fra autoritarismo e libertà
Le elezioni americane mai così sul filo del rasoio lasciano con fiato sospeso l’intero pianeta. Perché il verdetto del 5 novembre non riguarda solo un cambio di guardia alla Casa Bianca ma mette in gioco la sopravvivenza della democrazia nella sua culla più prestigiosa e tradizionale. Quello fra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris prima ancora che uno scontro fra conservatori e progressisti è un duello metaforicamente (così si spera) all’ultimo sangue fra autoritarismo e libertà. Se vince Trump forse non si instaurerà il fascismo a Washington ma stando all’incendiaria campagna del tycoon rischiano di venire spazzati via molti dei contrappesi che rendono equilibrata la gestione del potere.
E’ del tutto stupefacente ma nella realtà incombente che l’America conceda la possibilità di una seconda chance a un candidato golpista. Che aizzò i suoi fan all’assalto del Campidoglio dopo aver ripetutamente disconosciuto la vittoria di Joe Biden. Che è stato il primo ex presidente a subire una condanna penale in tribunale (con altri processi in corso a suo carico) per aver comprato il silenzio di una pornostar da lui assiduamente frequentata. Che mortifica la dialettica democratica offendendo gli avversari e seppellendo di contumelie chi non è d’accordo con lui. Che ha fatto della bugia il pilastro intorno a cui ruota l’illusionismo delle sue postverità, in base ai tre principi assimilati da un cattivo maestro in gioventù: attaccare sempre, negare la realtà, non riconoscere mai una sconfitta, Che tratta da delinquenti o addirittura da animali i disgraziati che cercano di mettersi alle spalle le miserie dei loro infelici paesi inseguendo il sogno americano. Che minaccia azioni punitive contro chi lo ha ostacolato. E nel caso di vittoria delinea già una postura dittatoriale. Mentre in caso di sconfitta prevede che scorrerà il sangue per le strade, anticipando che neanche stavolta accetterà un esito negativo e prefigurando addirittura l’incubo della guerra civile.
Come è possibile che questo scenario distopico prenda vita in una delle roccaforti della democrazia liberale? L’interpretazione più ricorrente chiama in causa gli squilibri prodotti dalla globalizzazione che ha arricchito vaste fasce del terzo mondo e impoverito la classe operaia e la media e bassa borghesia nelle società occidentali. L’economia con Biden non va così male. L’industria e la borsa tirano ma dopo la pandemia e nel corso di due guerre irrisolte l’inflazione morde ancora. L’uomo della strada, estraneo alle analisi politologiche, quando si fa i conti in tasca si preoccupa perché un hamburger costa quasi il doppio rispetto a quattro anni prima. E’ sui tormenti dei forgotten mea e sulla difesa dell’uomo bianco dagll assalti migratori del Sud che Trump ha eretto le fondamenta del suo successo politico. Un messaggio forte, da leader energico, che nell’aspettativa di una mano più salda ed esperta di quella della della Harris anche in economia gli ha assicurato pure il consenso del mondo finanziario e dei tycoon dell’alta tecnologia (Elon Musk) insofferenti ai vincoli delle regole e dei controlli. Arrivando al punto da far snaturare perfino il dna del Washington Post, il giornale del Watergate, dove la direzione si è rifiutata di appoggiare la candidatura democratica rifugiandosi nella neutralità. Scelta che ha portato un esercito di lettori a disdire l’abbonamento e molte firme a rassegnare le dimissioni. Per il fondato sospetto che Jeff Bezos, padrone della testata e uno degli uomini più ricchi del mondo, stesse trescando con Trump su alcuni progetti nello spazio.
Finendo per consolidare, lui peccatore, perfino il consenso tra gli evangelici e parte dei cattolici che vedono lo zampino di Satana in ogni idea di sinistra e sono indulgenti con gli scandali finanziari e sessuali di una figura che si atteggia a difensore dei loro interessi (e’ un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”, come giustificavano un tempo i presidenti Usa le equivoche alleanze con i dittatorelli centroamericani). In sintesi, in tempi così rapaci e tiranneggiati dal culto dell’immagine, il “particulare” di Guicciardini minaccia di oscurare negli Usa ogni altro ideale.
Trump non può però ancora cantar vittoria. Per l’obsoleto meccanismo elettorale americano l’esito è incertissimo, La Harris conserva forse un leggerissimo vantaggio sul voto nazionale (inferiore comunque al tre milioni in più che a Hillary Clinton non servirono a evitare nel 2016 la sconfitta proprio contro Trump). Ma per il macchinoso intreccio che nel Settecento attribuì un peso di rappresentanza maggiorato agli Stati meno popolosi la sfida si risolverà in un testa a testa mozzafiato.che coinvolgerà principalmente tre elettorati. Quelli della Pennsylvania, del Michigan e del Wisconsin. Per vincere e sfondare negli Usa il soffitto di cristallo (prima donna e di colore alla Casa Bianca) la Harris ha bisogno di affermarsi anche in tutti e tre questi “swing states” (stati oscillanti). Il risultato finale scaturirà probabilmente insomma da una manciata di schede nei bacini elettorali più divisi.
Ma anche la Harris ha buone frecce nel suo arco.L’euforia in campo democratico per la rinuncia alla corsa di Biden (destinato per il decadimento fisico a sicura sconfitta) ha almeno in parte attenuato i giudizi critici per la sua vicepresidente scolorita. In più, vista la relativamente giovane età (60 anni), ha portato una carica di energia e di freschezza scaricando su Trump i(78 anni) Il fardello della vecchiaia prima portato da Biden. E, soprattutto, ha l’appoggio come paladina del diritto di aborto insidiato dalla Corte Suprema (di estrazione prevalentemente trumpiana) della maggioranza dell’elettorato femminile. Perché in queste elezioni non si contrappongo solo due visioni del mondo ma anche le diverse aspettative fra i generi. E in più ha il sostegno degli intellettuali, degli artisti, della gente di spettacolo: tutte categorie più sensibili alla salvaguardia della democrazia.
Ma la Harris, pur sposata con un ebreo, dovrà in compenso scontare la freddezza da parte della comunità ebraica per il suo appoggio non così risoluto alla causa israeliana. Oltre l’avversione di quella araba e musulmana disgustata dal sostegno incondizionato dell’amministrazione Biden a Benjamin Netanyahu nonostante i massacri perpetrati a Gaza e in Libano.
Le conseguenze dell’esito ricadranno inevitabilmente sul mondo intero. Se vince la Harris poco cambierà sullo scacchiere diplomatico internazionale. Sostegno ribadito all’Ucraina di Zelensky e appoggio come sempre ferreo a Israele anche se in questo scacchiere potrebbe aprirsi qualche spiraglio per una riapertura di trattative sul riconoscimento di uno Stato palestinese.
Se a prevalere sarà Trump il quadro verrà rivoluzionato anche sulla scia dei suoi umori. Forse il tycoon non farà il dittatore perché in qualche modo sarà ingabbiato dagli anticorpi ancora resistenti della democrazia. Ma quasi certamente cesseranno gli aiuti di Washington all’Ucraina e Putin non troverà più ostacoli nei suoi disegni di annessione del Donbass. Inoltre verranno ripristinati su basi più amichevoli le relazioni con la Russia, mentre si allenteranno quelli con l’Europa. E gli Usa continueranno a competere per la leadership mondiale con la Cina ma in prevalenza sul piano commerciale. Per i palestinesi, almeno nel prossimo quadriennio, verrà infine accantonato ogni sogno di indipendenza.
Potrebbe anche finire in pari. E in quel caso deciderà la Camera dei Rappresentanti, in mano ai repubblicani. Se invece dovesse vincere di misura la Harris, beh, meglio non pensarci…
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