Giulia Catricalà, “La rosa sbagliata”, indagine diagnostica sulla memoria, sulla perdita, sul dolore e le sue cause profonde.

tre domande, tre poesie

 

La poesia di Giulia Catricalà dice tutto il dolore, e lo stupore, del nostro illudente desiderio di cancellare i gorghi muti del tempo, le sue risacche nere e non frenabili mai. La scrittura poetica (la sua natura potentemente altra, ulteriore, contraria) è soprattutto questo: guardare con amore sovrumano, e senza più tema della propria sorte, gli specchi della perdita, dello sprofondamento, della frantumazione; e, insieme, riuscire sempre a ricreare un dialogo fortissimo tra l’irrealtà e la vita (e, diresti, tra l’apparenza e l’esistenza; tra la morte e la presenza). È, questo, uno speciale amore per la memoria della realtà vissuta o ricreata, pronto a smontare e a riformulare le coordinate dello spazio e del tempo, dell’ascolto e del ricordo: un amore tutto obliquo, e instabile e implosivo, che eternamente sembra nervoso e duellante, di struttivo e medusèo; ma anche, e soprattutto, un amore di morte e di rinascenza (e in cui la stessa vita che rifiorisce è mirata, malinconiosamente, quasi a distanza, come un’assorta sorella cupa e silenziosa; o come “un ospite di tenebra che ti somiglia di poco”…). La scrittura di Giulia Catricalà si muove cauta ed elusiva, scoprendo e illuminando strappi o lacerti del reale che appaiono, a sorpresa, attraversati da una luce trasversale, impreveduta e misteriosa, quasi restando sulla soglia di una veglia che aspira a rintracciare “l’a sola dell’oblio”; e dove, infine, con misterica e stupìta sospensione, “assenza e presenza sono tutt’uno”.

(dalla prefazione di Mario Fresa)

 

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La rosa sbagliata”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Il sentire, in noi, è una presenza volatile, sfuggente, che si sottrae a ogni qualificazione per caratteristiche strettamente legate all’irripetibilità dell’esperienza e all’intimità della persona. La poesia analizza incessantemente questa unicità, frugando nel divario d’ombra che c’è tra senso e sintomo, tra la sensazione e la sua alterazione patologica. La Rosa sbagliata, infatti, rappresenta una radiografia del sentire, un’indagine diagnostica sulla memoria, sulla perdita, e sul dolore e le sue cause profonde. Credo che lo sforzo di rendere il sentire in qualche modo misurabile, osservabile e interpretabile, si presenti già come tentativo di linguaggio. La nostra società, infatti, ci impone degli standard, dei canoni di normalità riguardo la nostra vita emotiva; esiste un giudizio comune che decreta quale sofferenza sia legittima e quale no. Questo perché ci viene impartita un’educazione al dolore fortemente connotata dal contesto sociale e strutturata secondo un codice culturale che delega priorità, validità e credibilità alla sofferenza. Ho iniziato a scrivere versi perché vivevo il giudizio sul mio sentire come un carico opprimente e indesiderato, tanto da mettere in dubbio le mie stesse emozioni e sensazioni e sottoporle a una meticolosissima indagine, dove la sola parola voleva essere prova, dimostrazione, ma doveva prima essere verificata, oggettivata e autenticata dal processo della scrittura e dal canone della poesia. L’attitudine a una sensazione spiacevole, vissuta come persistente e inestinguibile, ma non validata dal contesto sociale, non ritenuta credibile, può portarci a rompere il canone dell’espressione, a elaborare un linguaggio eversivo che spezza la rigidità del pregiudizio, e crea una breccia nella comprensione sociale.

La poesia è un destino?

Non credo che la poesia sia un destino, ma una possibilità. La possibilità di restituire per mezzo della scrittura tutto quello che non si è riusciti a comunicare. Ogni vissuto, ogni esperienza umana che si accosta al dispiacere (nel suo significato originario di sconforto e pena) ha una potente carica etica che pretende dimensione e ascolto; e non può dissolversi contro un muro di idee preconcette Noi ascriviamo un significato al nostro dolore, un significato intimo, radicale, che per noi è lampante e per altri rappresenta un enigma. Ho intravisto, nella poesia e nel suo carattere universale, la possibilità di uno stimolo a considerare la validità di ogni esperienza, la possibilità di un codice sociale per cui il rispetto verso l’altro arrivi dove non riesce la comprensione, e non si perda tra i rivoli di un sistema di valori avvilente che considera il vissuto altrui accessibile e interpretabile secondo strumenti conoscitivi derivanti esclusivamente dalla propria esperienza o da schemi precostituiti.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Una, due, tre colonne
la notte insonne erge monumenti,
trattative tra ragione e tregua
e ragioni urlanti nella piega
del lenzuolo.
Le palpebre vanno a tentoni
per la via dell’abbandono,
perché nel dormiveglia si faccia nebbia
il sibilo del respiro.
Cerco l’asola dell’oblio
un volto fila e sciabola,
sento lo sdrucciolìo del nome
la microfibra delle tue parole.

Cerco con le dita sulla fronte
il codice a barre degli addii
l’infinto che goccia
sul parterre delle parole.
Smonto la realtà,
la tua eternità calcolata in rame
e alloro – distinguo nel rovo
cosa è spina da cosa è memoria.

Assólo

Non far di te un granello
di rabbia, un ticchettio
ruminante della stessa parola,
dello stesso assólo
che infuoca e baccaglia.
Accorcia la traccia
varia la metrica,
inventa un punto di svolta.
A volte il dolore è solo un racconto
che racconta troppo di sé.

Assólo è la poesia conclusiva della silloge. La raccolta, infatti, si conclude con una visione ottimistica del dolore e del destino: raccontarsi una storia diversa, una storia più edulcorata sulla propria vita, cambiare la “metrica” del passato e del presente, può aiutare a modificare la prospettiva, e, perchè no, a scrivere un finale migliore.

Giulia Catricalà è nata a Roma nel 1990. Ha studiato lettere moderne alla Sapienza di Roma e si è diplomata alla Scuola di giornalismo della Luiss. I suoi versi sono stati pubblicati su numerose riviste. Collabora come giornalista con quotidiani e magazine. La Rosa sbagliata (Fallone Editore) è la sua opera prima.

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