Manca la condanna di Pechino dell’invasione russa. I 12 punti sembrano più aria fritta che una roadmap verso la fine del conflitto
di Gianni Perrelli
I politologi del mondo occidentale si arrampicano sugli specchi per evitare di liquidare i dodici punti della mediazione cinese sulla guerra in Ucraina come aria fritta. Nei commenti si affaccia sempre un grumo di speranza che nasce dalla stanchezza per un conflitto in cui non si intravvedono sbocchi immediati e che fa leva sull’imponderabile. Manca nel piano di pace di Pechino la condanna dell’invasione russa. Si accenna troppo genericamente alla salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale che imporrebbe a Putin l’immediata restituzione della Crimea e del Donbass. E la prospettiva, come ovvio passo preliminare, di un “cessate il fuoco” sarebbe oggi troppo premiante per il Cremlino che potrebbe trattare dalle posizioni di forza assicurate dai territori occupati.
E’ scontato che a Putin in grande difficoltà convenga mostrarsi interessato. Mentre gli Stati Uniti, primi protettori dell’Ucraina, fiutando la trappola di condizioni penalizzanti ritengano irricevibile la proposta e continuino ad armare l’esercito di Kiev preparando la controffensiva. E Zelensky, per parziale par condicio, solleciti a Xi Jinping almeno una telefonata di chiarimento sul concetto della sovranità e dell’integrità territoriale che dopo l’aggressione ha dovuto in parte cedere.
Appare anche evidente che in questa fase di stallo entrambi i contendenti si muovano come pugili suonati. Nella catastrofe umanitaria, economica e urbanistica con cui deve fare i conti l’Ucraina e nel senso di impotenza in cui è piombata l’Armata Rossa (capace di conquistare al massimo qualche chilometro e non certo di espugnare Kiev) domina il sentimento di rassegnazione al peggio. Alla prospettiva di una guerra ancora lunga che porterà altri lutti, altre distruzioni, altri crimini, altre tragedie. Pechino e Mosca escludono per il momento il ricorso alla bomba atomica, l’Armageddon, anche di fronte al riarmo all’Ucraina. Ma su questo punto, ed è l’unico, concordano anche Washington e Kiev.
Per Putin la visita a Mosca di Xi Jinping, ricevuto in pompa magna, è sicuramente una boccata di ossigeno che attenua il discredito prodotto dalla richiesta di arresto emessa dal Corte Penale dell’Aja. La dimostrazione che non è isolato. Che ha al suo fianco, sia pur in forme ambigue, la seconda potenza mondiale. A cui lo unisce la convinzione che la civiltà occidentale abbia imboccato una fase di declino e che l’autocrazia senza freni possa risolvere meglio della democrazia imbrigliata i problemi dello sviluppo nel Ventunesimo secolo.
Vendendo il gas e il grano a Pechino la Russia ha intanto circoscritto i danni originati dalle pesanti sanzioni dell’Occidente. E il nuovo patto d’acciaio, che prevede nel 2023 quasi 200 miliardi di dollari di interscambio fra le due potenze legate almeno a parole da amicizia imperitura, rafforza l’alleanza anche dal punto di vista commerciale. Rimane, per Mosca, la frustrazione di essere diventata un partner junior, un gregario della superpotenza cinese. Che le dimostra amicizia ma non ha mai appoggiato militarmente l‘avventurismo di Putin, se non con l’invio di droni e materiali civili trasformabili.
Xi Jinping non può condannare la guerra di Putin perché sconfesserebbe preventivamente l’eventuale conflitto per l’annessione di Taiwan che resta un obiettivo irrinunciabile nella sua bussola di intenzioni. Nei fatti Pechino continua a seguire una linea di ambiguità perché, pur puntando con la sua azione diplomatica a evidenziare lo status di grande potenza, non ha interesse a interrompere i contatti con gli Stati Uniti e con l’Europa, mercati in cui muove un volume di traffici sette volte superiore a quello con la Russia. Non può mollare al suo destino Putin ma è al contempo incerta se sia più vantaggioso che la guerra prosegua per indebolire l’Occidente o finisca presto per dare ulteriore impulso alla sua economia.
La Cina, dopo l’autoimposto isolamento per il Covid e il rinnovo del mandato per Xi Jinping (il nuovo Mao), ha intensificato l’attività diplomatica per lanciare un messaggio di massima competitività nella sfida agli Stati Uniti per la supremazia mondiale. Espande l’influenza in Africa e in America Latina in un’inedita estensione della Via della Seta. Ottiene quasi con un atto di imperio la pace fra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita che da tempo immemorabile si guardavano in cagnesco. Con immediate ripercussioni sulla guerra nello Yemen, dove è scattata la tregua fra gli houti appoggiati da Teheran e il governo deposto a Sana sostenuto da Riad.
Resta sfumata solo la linea sul ginepraio dell’Ucraina, E’ opinione generale che solo un vertice fra Joe Biden e Xi Jinping potrebbe schiudere qualche spiraglio per indurre al dialogo Putin e Zelensky. Adombrando, magari, una soluzione coreana, (dove da 70 anni è in vigore un armistizio mai sfociato in un trattato di pace) che rinvierebbe a un futuro e a un referendum indeterminati l’assegnazione dei territori contesi. Ma i nodi sono ancora troppi aggrovigliati. La pace, per tutte le parti, ha ancora troppe incognite per apparire a portata di mano.
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