Prevale in tutti i belligeranti dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente, con inevitabili ricadute in tutto lo scacchiere internazionale, la corsa affannosa a posizionarsi al meglio in vista delle elezioni presidenziali in Usa del 5 novembre, alle quali sembrano appesi i destini dell’intero pianeta.
I disegni di pace ingialliscono nella carta da bozze e sempre più distruttivi divampano i lampi di
guerra. Il pacifismo retrocede a sterile retorica, rappresentata più nelle sfilate in pazza e nelle
mozioni di minoranza che nelle trame della diplomazia. Prevale in tutti i belligeranti delle due
guerre (Ucraina e Medio Oriente), con inevitabili ricadute in tutto lo scacchiere internazionale, la
corsa affannosa a posizionarsi al meglio in vista delle elezioni presidenziali in Usa del 5 novembre.
Alle quali sembrano appesi i destini dell’intero pianeta.
Il leader israeliano Benjamin Netanyahu, che si è autoregalato una illimitata licenza di sterminio,
apre un nuovo fronte bellico in Libano senza avere ancora del tutto chiuso quello aperto a Gaza
dall’orrenda stage perpetrata da Hamas lo scorso 7 ottobre. L’obiettivo ufficiale è quello di liberarsi
della morsa di Hezbollah, un’organizzazione fondamentalista sciita finanziata dall’Iran e
considerata in Occidente terrorista, che ha cominciato a bersagliare di razzi Israele costringendo
all’evacuazione i residenti nel Nord di Israele. Un’azione sistematica esercitata come ritorsione di
solidarietà ai massacri compiuti dall’esercito di Netanyahu, rivolti ad estirpare nella Striscia il
dominio della sunnita Hamas. Occhio per occhio, dente per dente. Da scontro di attrito il conflitto,
sempre più tecnologico (protagonisti i droni), si sta rapidamente trasformando nel prologo di una
guerra sul terreno che potrebbe coinvolgere anche la teocrazia di Teheran.
Hezbollah è militarmente molto più forte di Hamas. Ma a differenza di Hamas non ha in mano
l’arma degli ostaggi. Inoltre, grazie alle diaboliche manovre del Mossad che le ha decapato quasi
tutto il vertice, attraversa una fase di debolezza. Anche se in passato ha dimostrato di saper
risorgere rapidamente dalle ceneri. Ha un leader carismatico, Hassan Nasrallah, che vive nelle
tenebre e non si fa mai intervistare. Milizie proprie (più attrezzate dello stesso esercito di Beirut).
Un’influenza spesso decisiva negli equilibri della politica nazionale. Una rete di tunnel
dall’estensione superiore a quella di Hamas. E una fede incrollabile nei valori dell’Islam che stimola
l’eroismo e il martirio. Nella commistione fra potere terreno e energia spirituale è uno Stato nello
Stato. Una roccaforte impossibile da distruggere.
Netanyahu, frenato in parte dalle esortazioni ad evitare l’ escalation di tutte le potenze occidentali
preoccupate dal rischio di una terza guerra mondiale con possibili implicazioni nucleari, forse non
sferrerà un’invasione di terra. Sembra in ogni caso deciso a intensificare i bombardamenti per
tentare di indebolire fino all’impotenza il potenziale bellico di Hezbollah. Netanyahu ha soltanto vantaggi a protrarre lo stato di guerra. Se i conflitti si esauriscono corre il serio pericolo di perdere il potere e di finire perfino in galera per alcune pendenze giudiziarie al momento soltanto congelate. E preme sull’acceleratore dell’offensiva dal cielo anche nella speranza che alla Casa Bianca torni Donald Trump. Il grande tutore che renderebbe probabilmente molto difficile una sua destituzione.
Joe Biden ha cercato invano di ridurlo a più miti consigli. Netanyahu non ascolta nessuno. Si è
fatto beffe una decina di volte dei piani di pace coordinati dal segretario di Stato americano Antony
Blinken. Non registra neppure le reprimende dell’Onu incapace ormai di garantire l’ordine
internazionale. E’ sordo anche alle pressanti proteste di piazza agitate dai parenti degli ostaggi che
lo accusano di pensare a se stesso e non alle vittime dei rapimenti. E’ indifferente alle ondate
mondiale di antisemitismo che provoca il suo eccesso di muscolarità e che, almeno nel mondo
arabo, attireranno l’odio verso Israele per molte generazioni. E’ sensibile solo alle istanze dei partiti
dell’estrema destra messianica che lo tengono in vita in Parlamento, chiudendo gli occhi sui
soprusi inscenati dai coloni in Cisgiordania.
Anche Hamas, pur in ginocchio (non si sa nemmeno se Yahya Sinwar, il suo leader massimo, è
vivo o è morto), attende ormai il 5 novembre. Reclama senza particolari aspettative all’Assemblea
Generale dell’Onu la sospensione delle ostilità che hanno prodotto la morte di oltre 40 mila
palestinesi e distrutto nella Striscia l’intero tessuto urbano. Ma sa di abbaiare alla luna. Coltiva solo
la speranza che vinca Kamala Harris. Un esito che riproporrebbe la spenta prospettiva della
nascita di uno Stato palestinese. Nasrallah continua a pungere Israele ma non ha convenienza a
sfidare in campo aperto la potenza ebraica che potrebbe senza gravi danni estendere i suoi
tentacoli fino a Beirut. E lo stesso Iran, che minacciava sfracelli dopo l’assassinio a Teheran del
capo di Hamas Ismail Haniyeh senza poi sferrare neanche un attacco dimostrativo (anche perché
militarmente è più fragile di Israele), se ne sta acquattato in attesa degli eventi. Se vincesse la
Harris e si affermasse un processo di pace tornerebbero in vita le possibilità di un nuovo negoziato
sul suo apparato nucleare.
In Ucraina, sempre scrutando iil calendario, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky gioca su due
fronti. Organizza per il tardo autunno un processo di pace a cui spera di far aderire per la primavolta anche la Russia. Ma per presentarsi al tavolo delle trattative su posizioni di forza insiste nel
catapultare i suoi soldati all’interno dello Stato nemico e dispiegare i nuovi armamenti per usarli
anche fuori confine. Contemporaneamente, nell’assenza di certezze, corteggia l’appoggio sia di
Biden che della Harris che di Trump. Ma è chiaro che tifa perché alla Casa Bianca rimangano i
democratici.
Trump ha sempre avuto un filo diretto con Vladimir Putin, E’ evidente che quando afferma di essere in grado di risolvere rapidamente il conflitto è perché lo farebbe alle condizioni del Cremlino. Con la concessione ufficiale a Putin della Crimea e delle terre invase dalle truppe russe nel Donbass. Ovviamente Putin, che di pace non parla mai e se ne accenna lo fa senza convinzione, auspica il ritorno al potere di Trump.
Resta tutto sospeso fino al 5 novembre, la data del grande duello fra due concezione del mondo.
La prima, quella della Harris, che privilegia i diritti. La seconda, quella di Trump, che pone più
l’accento sull’economia. Sempre che non ci siano strascichi. Con una vittoria di stretta misura della
Harris che difficilmente verrebbe digerita da Trump e dalle sue legioni di sovreccitati supporter.