La farsa elettorale in Russia si è conclusa secondo le più scontate previsioni. Gli istituti di sondaggio avevano ampiamente previsto sia i margini di partecipazione al voto (oltre il 70 per cento) che il livello di consenso per Vladimir Putin (quasi il 90 per cento). Coincidono con le quote fissate dal Cremlino per blindare la candidatura dello zar e trasmettere al mondo il messaggio di un potere non solo dittatoriale ma anche inscalfibile, sostenuto come un segno del destino dalla volontà del popolo quasi intero. L’opacità del meccanismo elettorale non consente di appurare se il trionfo di Putin sia stato in realtà così ampio. Il ferreo controllo esercitato dal Cremlino su tutti i settori della società e l’esclusiva del monitoraggio sulle urne non permettono né verifiche né certezze. Così doveva andare e così è andata. Incluse le code simboliche davanti ai seggi, allo scoccare del mezzogiorno di domenica, che sotto la regia dall’estero della vedova di Aleksei Navalny volevano lanciare un segnale di resistenza. Le manifestazioni di protesta qua e là, nella sterminato territorio del paese, non sono mancate. Ma erano anche queste messe in conto dal regime che le ha metabolizzate opponendo una repressione neanche feroce, dal momento che nel corpaccione ipnotizzato dal nazionalismo della Grande Madre Russia non avrebbero rappresentato un serio pericolo.
E così il putinismo si fa eterno, consentendo al dittatore di allungare con il quinto mandato presidenziale il suo dominio fino al 2030 e successivamente, grazie ai ritocchi della Costituzione, di estenderlo eventualmente addirittura fino al 2036. Quando Putin, se dovesse vivere fino ad allora, avrebbe 84 anni, cioè l’età in cui l’oggi 81enne Joe Biden – se rieletto alla Casa Bianca – sarebbe ancora in carica nel suo secondo mandato. Un’egemonia che si spalmerebbe lungo 36 anni e supererebbe quella di Iosif Stalin (31 anni).
Secondo gli esperti russi di flussi elettorali la popolarità dello zar non è però solo il frutto avvelenato di manipolazioni o della paura provocata da un regime che si è dimostrato spietato con i dissidenti. Se ci si addentra nella psicologia di massa di un popolo che non ha mai conosciuto la vera democrazia, imbevuto fino al fanatismo di nazionalismo e convinto sia dal punto di vista morale che religioso di rappresentare e dover difendere un modello rigorosamente tradizionalista in netto contrasto con le libertà sociali e le disinvolture etiche (debosce dal loro punto di vista) del mondo occidentale ci si rende conto che lo scenario si inserisce anche nel quadro del conflitto di civiltà. La Russia è insieme alla Cina e in parte anche l’India la capofila di una strategia ideologica che aspira alla supremazia mondiale al posto un Occidente considerato in declino. E’ una corrente impetuosa che tende a privilegiare i modi spicci dell’autarchia sui passaggi complessi delle democrazia e, risucchiando anche tanti paesi del Sud del mondo, trascina oltre la metà dell’umanità. Una sfida globale che trascende gli esiti elettorali e aspira a formare una nuova visione del mondo.
“Ora siamo più forti che mai”, ha commentato sobriamente Putin le dimensioni del suo successo. Alludendo ovviamente alla libertà di azione che nella guerra in Ucraina gli deriva da un consenso così schiacciante. Nei fatti il nocciolo duro dei russi favorevoli alla prosecuzione del conflitto si aggirerebbe intorno al 50 per cento, fra cui circa la metà di bellicisti estremi che non si accontentano della conquista del Donbass e della Crimea e pretenderebbero l’annessione dell’intera Ucraina. Un altro 20 per cento è meno sensibile alla retorica guerresca ma è influenzata dall’ondata di patriottismo che dilaga in tutto il paese. Ill residuo 30 per cento, annidato soprattutto negli ambienti più evoluti e internazionali delle grandi città, o è indifferente per quieto vivere o si agita a livello più che altro di testimonianza in una protesta che in una società così sigillata non trova canali concreti per emergere.
La Russia è un Paese reso omogeneo anche dall’assenza di una stampa libera. I giornali più critici verso il regime sono stati soppressi. La televisione di Stato, fonte unica di informazione per le sconfinate campagne dove stenta ad affermarsi la rivoluzione digitale (peraltro perfino a Mosca e San Pietroburgo con contenuti sotto censura), distilla notiziari a senso unico più adatti al lavaggio del cervello che alla valutazione equilibrata degli eventi. C’è poi il fattore economia. Le sanzioni non sono riuscite a mettere in ginocchio il Cremlino. Che ha continuato in ogni caso a piazzare il suo petrolio alla Cina e all’India, che tramite triangolazioni con i paesi amici riesce a importare anche i prodotti occidentali e che infine grazie al boom dell’industria bellica ha messo insieme le risorse sufficienti a distribuire i profitti e a elargire bonus ai cittadini più fedeli al regime. In più, nonostante un mostruoso bilancio di 400 mila morti, l’avventura bellica a differenza che in Israele non è quasi mai vissuta direttamente dalla popolazione. Gli assalti della resistenza ucraina colpiscono al momento solo le località di confine e non il cuore del paese. E anche la mobilitazione militare ha reclutato prevalentemente i soldati nelle aree periferiche senza intaccare nelle principali concentrazioni dell’opinione pubblica la lealtà verso il regime.
Sentendosi oggi più forte quasi sicuramente Putin non ridimensionerà i suoi disegni militari. Cercherà di conquistare in Ucraina più spazio di quello che si è ritagliato con enorme sforzo e sproporzionata perdita di uomini. Se è vero che l’Armata Rossa avanza nelle pianure ucraine è altrettanto vero che occupa solo una minuscola fetta di territorio oltre il Donbass che proteggeva indirettamente già prima della scoppio della guerra. Escludendo sui tempi brevi la possibilità che si delinei una svolta diplomatica (che il Cremlino accetterebbe solo alle sue condizioni e implicherebbe la definitiva capitolazione di Kiev) forse Putin tenterà la spallata. Puntando a spingersi fino alla Capitale per insediare un governo fantoccio e portare a compimento dopo oltre due anni il disegno che si proponeva di realizzare in due-tre giorni. E invadere poi la contigua Moldavia. E se l’Ucraina, riarmata dall’Occidente, o sostenuta direttamente dall’Europa secondo gli allarmi di Emmanuel Macron, riuscisse ad opporsi o organizzare addirittura una controffensiva si entrerebbe nell’incubo nucleare. Putin ha già esplicitamente parlato dell’uso di bome atomiche tattiche sei il suo esercito dovesse trovarsi in difficoltà.
Sul fronte ucraino si prospettano insomma tempi forse ancor più drammatici. Specie se in novembre negli Stati Uniti dovesse essere rieletto Trump che almeno a parole non manifesta alcuna intenzione di arginare la bulimia di potere del sempiterno zar del Cremlino.
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