Il tempo che ci vuole, il commovente omaggio di Francesca Comencini al padre Luigi

“IL TEMPO CHE CI VUOLE”

di Francesca Comencini

con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano, Anna Mangiocavallo, Luca Donini

prodotto da Kavac Film, IBC Movie, One art con Rai Cinema, in coproduzione con la francese Les Films du Worso

Distribuito da 01 Distribution

<Prima la vita, poi il cinema. E se non lo capisci, è inutile che lo fai, il cinema>. Luigi Comencini sul set di Pinocchio si infuria con l’aiuto regista che ha appena insultato una signora affacciata alla finestra. La devi chiudere quella maledetta finestra, le urla Cesare, altrimenti appari in campo e bisogna fare tutto da capo. La gente del paese dove si gira lo sceneggiato tv del 1972 è incuriosita dai ciak e dal carosello delle riprese, non resiste con le persiane sbarrate, vuole scoprire come prende forma un film. <Siamo noi che dobbiamo chiedere il permesso a loro, li stiamo invadendo. Sono le loro case>, il regista (interpretato da un magistrale Fabrizio Gifuni) alza la voce, non è nel suo stile, e con quella battuta spiega il senso del  film straordinariamente intenso che la figlia Francesca gli ha dedicato: “Il tempo che ci vuole”, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia (anche se avrebbe meritato il concorso), e adesso nelle sale. C’è un momento in cui tocca scegliere quale ordine dare all’esistenza, Comencini/Gifuni fa quello che urla sul set, prima la vita, e così facendo salva la figlia, e anche sé stesso, come padre e come regista. Perché ci vuole il coraggio della vita per avere qualcosa di autentico da raccontare. Quello che nel film il padre riconosce alla figlia (la sorprendente e bravissima Romana Maggiora Vergano, figlia di Paola Cortellesi in “C’è ancora domani”) : <mi hai fatto vivere grandi emozioni perché ti sei gettata nella vita con coraggio>.  Quello stesso coraggio che trova la regista Francesca Comencini nel rendere omaggio al padre e al grande regista, e confessare le fragilità di ciascuno, le occhiaie della tossicodipendenza, il tremore del Parkinson.

Padre e figlia, nel film, non hanno nome e non hanno famiglia. Solo loro due nella casa sempre in ombra, un lungo corridoio, la grande libreria e poco altro. I ricordi sono un’altra realtà, rarefatta e anche fantastica, la regista li segue ricreando uno spazio insieme autentico e infedele, dove ci sono soltanto lei, il padre e il cinema. La bambina segue il padre sul set de “Le avventure di Pinocchio” e lì si accorge di sentirsi sempre nel posto sbagliato, ossia <in campo>, devi uscire dal campo, le ordina il regista/papà,  altrimenti non possono partire le riprese e si perde <la luce a cavallo>.  E’ bellissimo, il cinema, per quella bambina che fa anche la comparsa nel film ed è gelosa di Pinocchio, l’attore bambino a cui il papà dedica tante attenzioni. Così bello che lei resta incantata e non si muove quando le urlano <azione>. Così bello da non permetterle di sentirsi all’altezza di  quella magia.

Poi la bimba diventa un’adolescente e quell’intimità svanisce. Il telegiornale, in sottofondo, racconta gli agguati delle Br e il rapimento Moro. Lei attraversa il corridoio, sempre più buio, in silenzio e si chiude in bagno. <Ma tu ti droghi? Dimmi la verità>. Lei mente, lui la scopre. Lei si sente sbagliata, si fa schifo. Lui prova ad accogliere quel buio che la figlia ha dento, la illumina su come va la vita, come è andata la sua, restandole accanto, alla stessa altezza. Si siede a terra in corridoio per incontrare le lacrime della ragazza e la sfida: sempre tentare, e fallire – le dice – fallire di nuovo, fallire meglio.

E poi, quel papà speciale, le fa il dono più grande, mette la vita davanti, la porta via da Roma, lontano dalla droga. A Parigi. <Quanto staremo via?>. <Il tempo che ci vuole>.

Ci sono voluti 40 anni alla regista (tanto è passato dal film d’esordio “Pianoforte”, autobiografico anche quello) per raggiungere la grazia e la maturità necessarie a raccontare l’amore e l’arte che l’ha unita al padre, le debolezze e i dolori che hanno condiviso, e a farlo con una sincerità commovente, in un perfetto equilibrio tra memoria e fantasia, realtà e favola.  Non potrebbe che essere così, è il cinema ad intrecciare l’esistenza del padre e della figlia, sullo sfondo e in primo piano, ed è sempre il cinema a salvarli. Anche quando la vita viene prima, il cinema è vita, riempie i pomeriggi parigini del regista e della ragazza, diventa il linguaggio comune, la via d’uscita. E la trama che unisce l’inizio e la fine, con gli spezzoni della collezione che lo stesso Luigi Comencini ha salvato dal macero e donato alla Cineteca di Milano.

Una storia così non finisce e non si perde. Ci si ritroverà da qualche parte, forse nella pancia di una balena.

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