L’era del caos: la rivoluzione trumpiana e il nuovo ordine mondiale

dazi usa

L’era del caos, varata da Donald Trump in modalità Terminator, sta sconvolgendo con la rapidità di una saetta la geografia politica e gli equilibri finanziari dell’intero pianeta. Un’offensiva partita per assurdo proprio dalla culla della democrazia: gli Stati Uniti d’America, ideologicamente plasmati quasi due secoli e mezzo fa dal pensiero liberale di Alexis de Tocqueville. E che oggi sono nelle salde mani di una fusione fra un’ultradestra che oscilla fra il fanatismo e il messianesimo e la tecnocrazia capeggiata dal geniale e insieme spiritato Elon Musk. In un’accelerazione verso il futuro (dominio dell’intelligenza artificiale, sbarco su vicini pianeti). Col proposito di forgiare sbrigativamente una postumanità senza i contrappesi estenuanti della democrazia.

La sarabanda di decreti esecutivi con cui il nuovo (e vecchio) presidente si prefigge di scardinare l’ordine mondiale toglie il respiro all’interno del paese ed ha ripercussioni in ogni angolo del globo terracqueo. Trump ne spara cinque o sei al giorno. Distruggendo in patria posti di lavoro in odio al deep state della  burocrazia che secondo la sua dottrina era la catena di montaggio degli aborriti democratici. Disintegrando tutti i diritti conquistati dalle minoranze per avversione alle esagerazioni della cultura woke del politicamente corretto. Alzando dazi un po’ in tutte le direzioni. Dichiarando guerra alla libera stampa con l’esclusione dai briefing presidenziali delle due più importanti agenzie internazionali (Associated Press e Reuters). Sparando insulti e bugie (smentite da qualsiasi approfondito fact checking) contro chi si ostina a non piegarsi al nuovo vento della storia.

E fuori dai confini, alla barba dell’isolazionismo che gli si accreditava, demolendo storiche alleanze. Premendo per declassare a ininfluente comparsa l’Europa. Lisciando il pelo alle autocrazie contro cui fino a un paio di mesi fa la Casa Bianca faceva diga. Ribaltando in dileggio il sostegno dell’America verso il leader ucraino Zelensky e in apprezzamento l’ostilità verso lo zar russo Putin. Negando qualsiasi possibilità di costruirsi uno Stato al popolo palestinese. Allungando con ripetuti annunci le grinfie su territori (Groenlandia, Panama e magari Canada) nel totale disprezzo delle altrui sovranità.

Un rovesciamento di 180 gradi rispetto agli orizzonti di un’America che, pur nell’interpretazione alternata dei democratici e dei repubblicani, nel dopoguerra non aveva mai deragliato dai binari della democrazia. Con una velocità e una determinazione, sostenute dal desiderio di vendetta,  che spesso debordano nella cattiveria e a volte esondano nella caricatura (rimozione del nome Enola Gay, l’aereo he aveva sganciato le bombe atomiche in Giappone, per le assonanze omosessuali).  Fra minacce e anche frenate, secondo la bussola delle convenienze mercantili e nel completo svilimento dei valori. Al punto da far rimpiangere il Trump strampalato e altrettanto imprevedibile ma meno vulcanico e brutale del primo mandato. C’è del metodo in questa follia o c’è della follia in questo metodo?

L’opposizione interna per il momento sembra ammutolita. Assente Joe Biden di fronte alla gragnuola di insulti che quotidianamente gli riserva il tycoon. Scomparsa Kamala Harris (è stata pur sempre votata da 70 milioni di americani) che continua ad essere costante bersaglio di improperi e non trova il tempo o il coraggio di frenare la valanga di fango scagliatale addosso dai repubblicani. Eclissati i Clinton e gli Obama. L’America intontita non reagisce (se non per proteste sporadiche) neanche alle inaspettate crepe di un’economia che, ad onta delle mirabolanti promesse, segna il passo. L’unico esile argine è costituito dalla rete dei governatori democratici, dai giudici federali o statali che rigettano i meno digeribili decreti esecutivi e da una singola sentenza della Corte Suprema, di orientamento conservatore, che per una volta ha dato sorprendentemente torto al tycoon. Se l’economia non ingrana e l’invadenza di Musk (già ai ferri corti con molti ministri) non sarà frenata è possibile che Trump debba rallentare la sua velocità di crociera. Ma le elezioni di midterm che potrebbero invertire la tendenza (novembre 2026) sono ancora molto lontane. E la spaccatura fra le due Americhe attiene più all’idea del conflitto di civiltà che al termometro della tasca. Non sarà semplice modificare l’orientamento di una corrente maggioritaria che tende a riaffermare la supremazia dell’elettore bianco e a riscattare tutti gli ideali della società tradizionale messi in discussione dall’affacciarsi dei nuovi diritti. Senza contare che Trump, forte del controllo Senato e Camera dei Rappresentanti e dell’indulgenza della Corte Suprema, potrebbe pure tentare l’estremo colpo di mano: il cambio della Costituzione che gli consentirebbe un terzo mandato. Un’acrobazia di difficilissima attuazione. Ma in un paese in cui gli assalitori del Congresso sono stati graziati e oggi vengono considerati patriottici eroi come si fa ad escludere che negli Stati Uniti si instauri distopicamente una monarchia di fatto?

Se si pensa che Trump si è insediato da neanche due mesi l’idea che questo show pirotecnico prima ancora che rivoluzionario duri per tutti e quattro gli anni del suo mandato può far venire il mal di testa. Nel  tragitto radicale ma ondivago verso l’edificazione di un nuovo ordine mondiale si delinea un bis ristretto di Yalta. Con tre potenze (Usa, Cina e Russia) che si spartiscono le aree di influenza. Trump in un primo momento ha cercato di riabilitare Putin per sganciarlo dalla ferrea intesa con Xi Jinping con cui compete per la supremazia mondiale nell’economia. Nella riedizione (e capovolgimento) della diplomazia del ping pong riuscita a Nixon che aprendo a Mao Tse-Tung nel 1972 ruppe l’asse comunista fra Pechino e Mosca. Ma deve essersi presto reso conto che non è facile oggi allontanare la Russia dalla Cina fedele a un’incrollabile amicizia con Putin. Meno complicato, nel rilancio degli imperi, assestarsi su un vertice tripolare che consentirebbe ad ognuna delle tre grandi potenze, due dittature e una tecnoautocrazia mascherata, di prosperare sfruttando le risorse più appetibili del pianeta. Con decisioni rapide, senza gli impicci e le lentezze della democrazia. E se l’Unione Europea (nata secondo Trump “solo per fregare l’America” ) dovesse resistere, peggio per lei. Anche se ha quasi 500 milioni di abitanti, una prosperità abbastanza diffusa, un tessuto produttivo dinamico e istituzioni culturali prestigiose, se non si piega ai voleri di Washington sarà relegata al rango di Cenerentola.

Paradossalmente però l’iconoclastia di Trump sta producendo anche qualche effetto benefico. L’Europa, militarmente con le spalle al muro senza più lo scudo americano (che – occorre riconoscerlo – pur usufruendo di vantaggi strategici l’ha protetta quasi gratis per decenni), si impegna per la prima volta in uno sforzo di riarmo e di sicurezza di fronte agli impulsi di ingordigia del Cremlino. Ricompattandosi in difesa di un’Ucraina ormai a pezzi, che corre il serio rischio di essere polverizzata dalla prossima trattativa di pace praticamente privata fra Trump e Putin (con l’esclusione ovviamente della irriconoscente Europa). E amplificando probabilmente gli scambi commerciali compromessi dal trumpismo in direzione di Pechino. Solo Bruxelles, accelerando il processo di integrazione, può ergersi con l’appoggio della Gran Bretagna (forse Starmer sta avviando una marcia di riavvicinamento alla Ue) a roccaforte della democrazia. Che sarà pure sfibrata, macchinosa e inadeguata al cinismo dei tempi correnti ma resta pur sempre un baluardo di libertà. E che nella nostra dimensione culturale non può essere del tutto sovvertita dal bisogno di protezione dei ceti trascurati.

Non è la prima volta nella storia che i forgotten men consegnano le loro vite nelle mani dei plutocrati. Con esiti che si sono rivelati quasi sempre illusori. Certo, in questa nuova era, c’è la variante della tecnocrazia, di un’avventura verso prospettive incognite che rende più fragili i raffronti con il passato e più magnetiche le aspettative per il futuro. Ma la libertà è come l’aria. Chi la conquista non riesce poi a farne a meno. Non si sono mai registrati fenomeni di migrazione di massa dalle centrali della democrazia verso le frontiere delle autocrazie.(Associated Medias) – Tutti i diritti sono riservati