Nidal Shoukeir, Gli arabi e la “terza opzione” per Gaza. Grande attesa per il vertice di Ryad

Gli Stati arabi stanno cercando di formulare un’alternativa pragmatica e realistica alla proposta di Trump. L’obiettivo è duplice: salvaguardare i diritti del popolo palestinese e, allo stesso tempo, favorire una de-escalation e un percorso politico verso la pace

 

gaza

di Nidal Shoukeir (Professore di Comunicazioni Strategiche e Relazioni Governative)

La causa palestinese ha vissuto sviluppi drammatici negli ultimi mesi, portando a gravi battute d’arresto che hanno avuto un impatto diretto sul futuro del popolo palestinese e sulle sue aspirazioni a uno Stato indipendente. Dopo anni di stallo politico e di negoziati falliti—aggravati da una leadership palestinese divisa e indebolita e da un governo israeliano che persegue politiche sempre più radicali—la situazione è precipitata in modo senza precedenti il 7 ottobre 2023. In quella data, Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, ha lanciato un attacco militare a sorpresa chiamato “Diluvio di Al-Aqsa”.

Questo attacco è stato il più letale nella storia di Israele, provocando la morte di circa 1.200 persone, il ferimento di circa 7.500 altre—per lo più civili—e il rapimento di quasi 250 ostaggi, trasferiti all’interno di Gaza. Secondo Hamas, questa operazione è stata “un passo necessario e una risposta naturale” all’occupazione israeliana, con l’obiettivo di porre fine al lungo blocco su Gaza e accelerare la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale.

Dal blocco alla distruzione

 

Dal punto di vista strategico, Hamas ha cercato di riproporre la “prima opzione”, ovvero l’approccio militare, per fare pressione su Israele e ottenere concessioni politiche. Tuttavia, i suoi calcoli sembrano essere stati errati, portando a conseguenze catastrofiche per la causa palestinese. In risposta all’attacco, Israele ha lanciato una campagna militare senza precedenti, l’“Operazione Spade di Ferro”, guidata dal primo ministro Benjamin Netanyahu. Questa offensiva è durata oltre 14 mesi, provocando la morte di oltre 40.000 palestinesi, il ferimento di quasi 100.000 altri e l’eliminazione di numerosi leader di Hamas.L’attacco del 7 ottobre non ha raggiunto gli obiettivi sperati, ma ha invece aggravato la crisi. Gaza è stata ridotta in macerie, resa inabitabile, e oltre il 90% della popolazione è stata sfollata, mentre Israele ha ampliato il proprio controllo su altri territori palestinesi. Di fronte a questa catastrofe umanitaria e alla crescente preoccupazione per un’ulteriore escalation, la comunità internazionale ha iniziato a cercare soluzioni alternative. In questo contesto, il 5 febbraio 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scioccato il mondo proponendo quella che ha definito la “seconda opzione” per Gaza: un trasferimento di massa della popolazione di Gaza verso paesi vicini come l’Egitto e la Giordania, o la loro ricollocazione altrove, con Gaza sotto amministrazione statunitense e trasformata nella “Riviera dell’Oriente”.

Il rifiuto arabo unanime dello sfollamento forzato

La proposta di Trump ha suscitato reazioni contrastanti. Alcuni l’hanno vista come un tentativo di cancellare la presenza palestinese a Gaza, mentre altri l’hanno interpretata come una soluzione pragmatica alla crisi umanitaria in corso. In ogni caso, la questione palestinese è entrata in una nuova fase di complessità: non è più solo la guerra a minacciare Gaza, ma anche lo spettro dello sfollamento forzato e delle soluzioni politiche alternative. Di fronte a questo scenario, gli Stati arabi si sono mobilitati con una rara unità, rifiutando categoricamente ogni tentativo di deportazione dei palestinesi da Gaza. Nonostante le forti pressioni, hanno mantenuto una posizione ferma contro la proposta di Trump.

  • L’Egitto ha dichiarato in modo chiaro e inequivocabile la propria opposizione totale al piano di trasferimento della popolazione palestinese nel proprio territorio.
  • L’Arabia Saudita ha assunto una posizione forte, con il Ministero degli Esteri che ha dichiarato: “La posizione del Regno sulla creazione di uno Stato palestinese è incrollabile e non negoziabile, e non ci sarà alcuna normalizzazione con Israele senza questa garanzia.”
  • Il re Abdullah II di Giordania, in un gesto significativo, si è recato alla Casa Bianca nel pieno della crisi, dove ha espresso in modo diretto al presidente Trump il rifiuto assoluto della Giordania nei confronti dello sfollamento forzato. Ha inoltre sottolineato l’importanza di una “terza opzione” che preservi Gaza, protegga i diritti dei palestinesi e garantisca la creazione di uno Stato palestinese indipendente, come parte di una soluzione globale e sostenibile al conflitto decennale.

 

Il vertice di Riyad: verso una terza opzione”

In questo contesto, tutti gli occhi sono ora puntati su Riyad, dove nelle prossime ore si terrà un importante vertice arabo. Questo incontro di alto livello, che riunirà Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Qatar, ha l’obiettivo di coordinare una risposta efficace alla proposta di Trump e, soprattutto, di elaborare una “terza opzione”.

Questo piano prevede:

  • La ricostruzione di Gaza,
  • La garanzia del diritto dei palestinesi a rimanere nella loro terra,
  • La creazione di un quadro di stabilità regionale.

L’ultima speranza per la Palestina?

 

Di fronte a una situazione militare disastrosa e al rifiuto globale dello sfollamento forzato, gli Stati arabi stanno cercando di formulare un’alternativa pragmatica e realistica. L’obiettivo è duplice: salvaguardare i diritti del popolo palestinese e, allo stesso tempo, favorire una de-escalation e un percorso politico verso la pace. Tuttavia, trasformare questa “terza opzione” in realtà sarà una sfida enorme. Sarà necessario ottenere l’adesione di molteplici attori, spesso con interessi divergenti, e accettare compromessi difficili per garantirne il successo. Eppure, in questa fase cruciale, questa iniziativa guidata dagli Stati arabi potrebbe rappresentare l’ultima speranza per la Palestina, ridando slancio diplomatico alla causa palestinese e aprendo la strada a un futuro più stabile per l’intera regione.

La domanda resta: questa terza opzione sarà affrontata con realismo e pragmatismo, o la complessità del conflitto continuerà a tenere il popolo palestinese in un vicolo cieco senza fine?

 

 

 

 

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