Quel che accadrà nell’anno appena cominciato tra guerre nuove e vecchie ed emergenze geopolitiche e sanitarie. Da Zelensky a Putin, da Lula a Bolsonaro, da Xi Jinping ad Erdogan ecco chi scriverà la storia nel prossimi 12 mesi
di Gianni Perrelli
Fitte nuvolaglie si stagliano anche sull’anno che verrà. Le piaghe bibliche della guerra e della pandemia non accennano ad allentare la morsa. In più c’è lo spettro dell’inflazione: magari si ridurrà ma continuerà a erodere i bilanci familiari della classe media e ad aumentare le sterminate legioni di chi annaspa sotto i livelli di povertà. Si annuncia un 2023 ancora minaccioso. Forse non peggiore dei tre che l’hanno preceduto. Ma non ci vuole molto per sollevarsi appena un po’ al di sopra del recente e tremendo triennio.
La guerra in Ucraina si trascina, con tutto il suo carico di tragedie, in una situazione di stallo. Gli ultimi scontri lasciano intravvedere una nuova spinta della Russia che conquista posizioni sia pur apparentemente solo simboliche dopo una poderosa avanzata delle truppe ucraine che sembravano prefigurare una storica disfatta per il Cremlino. Il conflitto, che coinvolge indirettamente anche l’Italia colpita dalla crisi energetica, potrebbe risolversi in primavera, con il ritorno di condizioni meteorologiche meno avverse. Quando l’Ucraina avrà ricevuto i nuovi armamenti di difesa forniti dall’Occidente e la Russia avrà riposizionato lungo tutto il fronte del Donbass le fresche forze d’assalto reclutate da Putin.
Che ha probabilmente ridimensionato i suoi obiettivi originari, rinunciando alla conquista dell’intera Ucraina, ma non può recedere dal disegno minimo di annettersi i territori orientali russofoni. Lo zar si fermerà solo quando riterrà di essersi impadronito di un sufficiente territorio da consentirgli di aprire un confronto negoziale alle sue condizioni. O, nei piani un po’ utopistici degli ucraini, di fronte a una batosta che lo ricaccerebbe all’interno dei suoi confini con la riconsegna a Kiev della Crimea oltre che del Donbass.
Zelensky, per la quantità di odio accumulato dai suoi concittadini verso Mosca, non può che incitare alla resistenza e predicare ottimismo. Ma non può neanche sottovalutare i rischi di un conflitto nucleare. Come non temere che un Putin alle corde sia tentato di sganciare un ordigno atomico, con inevitabile coinvolgimento di tutto il mondo precipitato nell’incubo dell’Apocalisse? In conclusione l’unico esito ipotizzabile sulla distanza potrebbe essere un compromesso delineato dal conseguimento delle posizioni sui campi di battaglia. Con una riedizione della formula coreana, dove fra Nord e Sud vige da 70 anni un armistizio senza che sia mai stato siglato un vero trattato di pace.
Tra le guerre più o meno dimenticate che avvelenano soprattutto l’Africa e il Medio Oriente potremmo ritrovarcene una alle porte di casa. Non si stempera l’attrito fra Serbia e Kosovo in nome di accesi nazionalismi che si pensava fossero stati dispersi dai venti della globalizzazione. E anche in questo caso soffia sul fuoco la Russia che appoggia le rivendicazioni di Belgrado.
Il Covid nell’immaginario collettivo degli occidentali – pur continuando a seminare contagi e morti – è stato declassato a malanno di poco superiore a quello dell’influenza stagionale. Un nuovo allarme piomba però come tre anni fa di nuovo dalla Cina (dove il pericolo è nato) per la dissennata gestione del virus condotta da Pechino. Che prima ha cercato in maniera inconcludente di liberarsene isolando lo sterminato paese con restrizioni drastiche. E oggi, di punto in bianco, ha decretato il “liberi tutti” per l’impossibilità di continuare a tenere in gabbia quasi un miliardo e mezzo di individui. Con conseguenza gravissime che hanno reso incontenibile la diffusione del virus e, con la ripresa dei viaggi internazionali, tornano a spaventare l’intero pianeta.
Altri scenari di tensione si sviluppano in Iran, dove la rivoluzione del velo ha sferrato un attacco senza limiti alla teocrazia che potrebbe sfociare addirittura in uno storico cambio di regime. Mentre aumenta la violenza politica anche in America Latina. In Brasile Lula non avrà vita facile a convivere con l’opposizione bolsonarista che rappresenta quasi la metà del paese e non si rassegna a cedere il passo. E in Perù, precipitato nel caos dopo la destituzione del presidente Pedro Castilho. Nel nostro Mediterraneo rimane in sospeso il dossier della Libia, fonte potenziale di nuovi scontri e sui cui tavoli diplomatici giocano troppi attori (inclusa l’Italia).
Nei massimi sistemi continuerà poi il serrato confronto fra Stati Uniti e Cina per la supremazia mondiale nell’economia, nella geopolitica e nella tecnologia. Al momento, per fortuna, senza riflessi militari. Salvo che Xi Jinping, in ambasce per il Covid, non decida di uscire dall’angolo di una incipiente impopolarità intraprendendo l’avventura dell’assalto a Taiwan. Che rivitalizzerebbe l’orgoglio nazionale ma imporrebbe l’intervento degli Stati Uniti con ricadute catastrofiche a livello mondiale.
Sul fronte elettorale si stagliano tre importanti appuntamenti. In Turchia, Argentina e Spagna. In giugno ad Ankara il leader conservatore Recep Tayyip Erdogan, che governa da quasi dieci anni ed è molto attivo sul fronte internazionale (è l’unico che riesce a parlare sia con Putin che con Zelensky), cerca una riconferma non così scontata per via della grave crisi economica. Ma, a scanso di rischi, spera di eliminare per via giudiziaria dalla corsa Ekrem Imamoglu, progressista e sindaco di Istanbul, condannato in primo grado a due anni di carcere per offese a pubblici ufficiali. Se la sentenza diventerà definitiva lo sfidante in ascesa di consenso sarà automaticamente estromesso dalla competizione elettorale.
Ad ottobre in Argentina il presidente peronista Alberto Fernandez tenta un difficile bis reso complicato dalla insostenibile crisi finanziaria che ha scagliato metà del paese sotto la soglia di povertà e dalle vicende giudiziarie che affliggono la sua vice Cristina Kirchner. La vittoria dell’Albiceleste ai mondiali di calcio in Qatar ha concesso a Fernandez un attimo di tregua. Ma l’opposizione incalza. Non si esclude che nell’altro schieramento, confidando nella volubilità dell’elettorato, rispunti la candidatura di Mauricio Macri, l’ex presidente che fu sonoramente bocciato alle ultime presidenziali.
A dicembre in Spagna anche il premier socialista Pedro Sanchez cerca la conferma forte della sintonia con Podemos. Ma l’alleanza fra il partito popolare (conservatore) e Vox (formazione estremista) sembra in grado di poterlo scalzare proponendo uno sbocco verso destra che ricalcherebbe l’esito delle recenti elezioni in Italia.
Atri appuntamenti sono fissati per febbraio nella turbolenta Nigeria (resa di conti fra due leader emergenti e un imprenditore); per marzo in Estonia (avanza la destra estrema in funzione anti Russia); per maggio in Thailandia (dove potrebbe essere riconfermato il generale Prayut Chan-o-cha appoggiato dalla Cina); per settembre in Pakistan (duello fra il premier Shehbaz Sharif e il predecessore Imram Kan).
Di maggior rilievo, pur essendo solo regionali o locali, sono le elezioni a maggio in Gran Bretagna e a settembre in Russia. Nel primo caso si tratterà di un referendum sul premier conservatore Rishi Sunak e sulla Brexit che la maggioranza degli elettori oggi comincia a ripudiare. Nel secondo di un test sulla solidità di Putin che dipenderà ovviamente dagli sviluppi della guerra in Ucraina.
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