Un dramma dimenticato: ecco la mappa del disagio e dei disastri che toccano ogni angolo del continente a cominciare dai giganti Brasile, Argentina e Cile
di Gianni Perrelli
Carovane di vacanzieri ipnotizzati dagli incantesimi di Rio o di imprenditori statunitensi e europei calamitati in Brasile (soprattutto nell’area industriale di San Paolo) dalle opportunità che venivano offerte da una delle locomotive del Brics (i cinque paesi in via di sviluppo con l’economia più dinamica). Il fascino glamour di Buenos Aires che galleggiava sui ricorrenti disastri macrofinanziari dell’Argentina attirando visitatori da tutto il pianeta non solo con l’esplosività di un’inesauribile vita notturna ma anche con le aperture futuriste ai diritti civili (sono nati qui i primi alberghi esclusivi per coppie gay).
Il rigore quasi teutonico del Cile che, pur insidiata nella sua tenuta democratica dai rigurgiti del pinochettismo, era considerato una sorta di enclave europea in Sudamerica. L’esempio di austerità personale al servizio esclusivo del paese di Pepe Mujica che in Uruguay rappresentava un faro di specchiata amministrazione. Perfino la vitalità controversa dei regimi di sinistra: il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales, entrambi suggestionati da Cuba, che riuscivano ad occupare da protagonisti la scena internazionale.
Fotografie sbiadite. Reperti di memoria in un subcontinente precipitato nello sfacelo economico e sociale. Un disastro accentuato ovviamente dal Covid e dalle strategie scriteriate con cui è stata gestita la pandemia. Ma che ha robuste cause anche nel dissennato controllo dell’economia, nel dilagare della corruzione, nella proliferazione sempre più accentuata delle sacche di povertà. Una miscela incandescente che sta provocando raffiche di rivolta, ondate migratorie, rimescolamenti politici, convulsione elettorali con paesi che quasi alla ricerca di una qualsiasi boccata d’ossigeno passano da destra a sinistra (o viceversa) quasi alla cieca, come falene impazzite. Non per convinzione ma per paura.
La mappa di un disagio che rischia di sconfinare nel dramma tocca ogni angolo del continente. A partire dai giganti.
BRASILE – L’energia populista di Jair Bolsonaro ha perso la spinta propulsiva. E’ stata minata dalla leggerezza quasi genocida con cui è stato affrontato il Covid (record continentale di casi e di mortalità e tassi irrisori di vaccinazione), dall’esercizio dilettantistico del potere, dal cancro della corruzione, dalla prepotenza dittatoriale manifestata nei confronti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, dalla perdita della sponda internazionale dopo l’uscita di scena di Donald Trump. Si moltiplicano nei grandi e nei piccoli centri le proteste delle masse che, a prescindere dalla ideologie, chiedono l’impeachment del presidente. Dilaga la miseria fra le fasce più emarginate. Si sono liquefatti i proventi del turismo. Si è affossato il valore del real (la moneta nazionale). Si riaffaccia – creando panico fra i conservatori incalliti, i più avidi tra i ceti abbienti e gli evangelici in rotta di collisione con i cattolici, cioè tutti i più tenaci sostenitori di Bolsonaro – il fantasma di Lula, risorto e riabilitato dopo l’incarcerazione e di nuovo favorito nei sondaggi per le presidenziali del 2022. Un panorama emergenziale che favorisce l’eruzione di violenza e rende quanto mai fosco il futuro del gigante latino-americano (oltre 200 milioni di abitanti).
ARGENTINA – Il ritorno al potere del peronismo (nella declinazione della sinistra moderata) non trova antidoti contro l’iperinflazione che sta mettendo un ginocchio il paese. Il tasso di povertà (circa il 35 per cento) è il più alto degli ultimi 20 anni. Ma già sotto la presidenza del liberista Mauricio Macri quasi un terzo della popolazione viveva sotto la soglia della povertà. Abbrutita nelle villas miserias che circondano la gigantesca conurbazione di Buenos Aires o nella sterminata pampa che produce meno ricchezza alimentare rispetto alle età dell’oro. Il presidente Alberto Fernández, spalleggiato dalla vice (ed ex) presidente Cristina Kirchner, si batte nelle sedi internazionali per una moratoria del debito di nuovo mostruoso. E insufficienti appaiono le dighe contro il Covid che falcidia vite umane soprattutto fra i ceti più disagiati e condannati alla promiscuità.
CILE – Le piazze di Santiago e dei centri principali sono sedi di sit-in quasi permanenti. Non si agita solo il proletariato. Protesta anche la piccola e media borghesia. E sempre più minacciosa diventa la rivolta dei giovani che non vedono luce nel loro futuro e che già resero travagliato l’ultimo scorcio di presidenza di Michelle Bachelet (socialista). Il presidente conservatore Sebastan Pineira sta cercando di arginare il malcontento con timide aperture. Ma la stragrande maggioranza del paese non si accontenta più di ritocchi cosmetici. Reclama riforme radicali in politica e in economia. Sul fronte del Covid in un primo momento il Cile sembrava una felice eccezione. Ha il record continentale di vaccinati ma i casi continuano a moltiplicarsi per le troppo veloci riaperture e l’efficienza solo parziale del Sinovac, il vaccino cinese prescelto da Santiago.
COLOMBIA – Da quasi due mesi il paese è paralizzato dalle violente ondate di protesta. prima contro una riforma fiscale vessatoria promossa dal presidente conservatore Ivan Duque. E poi per la difesa dei diritti civili e contro la durissima repressione delle forze dell’ordine che hanno usato il pugno di ferro (oltre 60 morti) contro i manifestanti a Bogotà, Cali e Medellin. Sulla sfondo permangono le tensioni per la pace non del tutto metabolizzata fra lo Stato e gli ex ribelli della Farc e la situazione sempre incandescente ai confini con il Venezuela dove è incontenibile l’afflusso di profughi in fuga dal regime allo stremo di Nicolas Maduro.
PERU’ – Non è ancora ufficiale la vittoria elettorale nelle presidenziali del socialista Pedro Castillo, un maestro di scuola che ha costruito la sua base elettorale nel sindacato e nella fascia andina da cui proviene. Ha vinto di strettissima misura battendo Keiko Fujimori, che ha già conosciuto il carcere per reati di corruzione e che secondo una nuova sentenza emessa nei giorni della consultazione rischia di tornare in galera. Ma intanto la combattiva sfidante contesta il risultato e ha chiesto il riconteggio. E’ figlia di Alberto (detto “el chino” per le sue origini) che governò con eccesso di autoritarismo nell’ultimo decennio del secolo scorso, sterminando il terrorismo di sinistra e limitando le libertà democratiche, per poi incappare in una serie di scandali finanziari che gli hanno aperto a più riprese le porte del carcere (dove è tuttora rinchiuso). E’ sempre lacerante il conflitto fra una destra dispotica e una sinistra non del tutto insensibile ai richiami della rivoluzione. Le forze più responsabili del paese hanno fatto un appello allo scrittore Mario Vargas Llosa (coscienza critica del Perù) perché convinca la Fujimori a fare un passo indietro evitando ulteriori lacerazioni. Ma l’invito è stato respinto per la totale avversione dell’illustre intellettuale verso tutto ciò che ha anche un vago sentore di sinistra.
BOLIVIA – Luis Arce (foto), il nuovo presidente di sinistra che ha favorito il ritorno in patria di Evo Morales (costretto dal precedente governo di destra a un precipitoso esilio per evitare la prigione) ha creato le premesse per l’incarcerazione di Jeanine Anez (che con un colpo di Stato l’aveva preceduto al potere) per aver forzato la Costituzione e per la durissima repressione nei massacri di Senkata e Sacaba. La Bolivia è da sempre il paese del Sudamerica più esposto ai golpe (militari e civili) e alle convulsioni politiche. Solo sotto Morales aveva trovato una certa stabilità.
ECUADOR – Il nuovo presidente di destra Guillermo Lasso (banchiere e membro dell’Opus Dei) sta smantellando velocemente lo statalismo dei predecessori di sinistra (Rafael Correa e Lenin Moreno). Con contraccolpi sulle fasce più povere che vivono di assistenza e conseguenti tensioni sociali.
URUGUAY – Il presidente conservatore Luis Alberto Lacalle, subentrato a Julio Maria Sanguinetti (dello stesso schieramento di sinistra del mitico Pepe Mujica) sembra guidare senza scosse il paese più tranquillo del Sudamerica (un tempo era definito la Svizzera del subcontinente). Il problema, gravissimo, è il Covid. L’Uruguay (appena tre milioni e mezzo di abitanti) ha tassi spaventosi di infezione contro cui sembrano impotenti le autorità sanitarie.
PARAGUAY – Il presidente conservatore Mario Abdo Benitez (del partito Colorado, che detiene da decenni – con saltuarie eccezioni – il monopolio del potere) ha varato un piano in senso liberista per rilanciare l’economia. Ma il tasso di povertà resta inchiodato a un disastroso 38 per cento.
VENEZUELA – Stato praticamente fallito, con la stragrande maggioranza della popolazione ridotta alla fame e, sotto la guida brutale e inefficiente di Nicolas Maduro, priva ormai anche di quell’alone di carisma che pur con risultati deludenti riusciva ad incarnare Chavez e che attirava le correnti di ribellione sparse nel subcontinente.
L’unica potenza che potrebbe tentare di arrestare questo sfacelo, anche per tagliare la strada alla Cina che sta espandendo in Sudamerica la sua area di influenza, è l’America che ha sempre considerato il subcontinente come il cortile di casa e ha interesse a prevenire i tentativi di invasione prodotti dalla miseria. Ma Joe Biden sembra avere altre priorità: la sfida per il primato delle superpotenze con Pechino e Mosca, il ripristino del dialogo con l’Europa.
In subordine potrebbe svegliarsi anche l’Europa, se non altro per un principio di solidarietà suggerito dallo ius sanguinis: la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana ha le radici nel vecchio continente.
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