Nella ricerca di un nuovo ordine mondiale i paesi del G7 sono ancora in netto vantaggio sui Brics in termini di Pil: oltre 43 miliardi di dollari contro 26 mila. Ma sul fronte della partita del potere d’acquisto (cosa si può comprare, paese per paese, con la stessa cifra) sono già più avanti i Brics
di Gianni Perrelli
Mentre in Ucraina si acuisce la tragedia della guerra, in Estremo Oriente a livello diplomatico si delinea uno scontro cruciale nella corsa alla supremazia mondiale. Con al centro, in tutti i dossier, l’accentuato dinamismo della Cina che dopo la paralisi del Covid allunga i suoi tentacoli in ogni angolo del globo. E’ in gioco non solo l’egemonia nei settori dell’economia e dell’innovazione ma addirittura la visione del mondo e degli equilibri futuri. Con la democrazia occidentale impegnata a predisporre argini contro la crescita dell’autocrazia in grado di suggestionare e influenzare larghi segmenti del Terzo mondo.
A Kiev, dove si intensificano i preparativi per la controffensiva ucraina che con i sofisticati armamenti forniti dagli americani e dagli inglesi punta al recupero dei territori conquistati da Putin nel Donbass e perfino della Crimea, l’arrivo di Li Hui, l’inviato speciale di Pechino esperto di relazioni con il Cremlino, è passato quasi inosservato. Per l’irrilevanza dei moniti di pace che non hanno affrontato le soluzioni concrete. La visita, che fa seguito al piano per la pace in 12 punti presentato da Xi Jinping, è stata un atto di buona volontà e insieme il tentativo della Cina di porsi al centro di una scena che la riguarda solo indirettamente come protagonista del nuovo ordine mondiale. Ma non aprirà i sentieri di un dialogo fra Kiev e Mosca. Perché la Cina non è in grado, e non ha neanche interesse, di imporre a un Putin indebolito la restituzione di tutte le aree conquistate, che è poi la condizione irrinunciabile degli ucraini per l’avvio di una trattativa. Le fa più comodo tenerlo soggiogato.
A Hiroshima l’aristocrazia del G7 spalleggiata dall’ormai quasi onnipresente Zelensky ha dibattuto sul come assecondare la volontà mediatrice di Pechino nel conflitto ucraino senza ovviamente cedimenti al suo occhio di riguardo verso Mosca e senza sconti per i suoi aggressivi sforzi di penetrazione commerciale in tutti i continenti. Per tutta risposta, il 2 e 3 giugno, Xi Jinping – irritato per la diffidenza manifestata dal G7 che gli rinfaccia scorrettezze anche nell’impiego delle nuove tecnologie – ha convocato a Città del Capo un vertice dei Brics (l’organizzazione dei paesi con grandi potenzialità di crescita economica che comprende Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa e come popolazione raggruppa quasi la metà dell’umanità).
All’ordine del giorno c’è il progetto di allargare il club ad almeno altri dodici paesi già opulenti o in potenziale emersione per la ricchezza delle risorse – fra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi, Iran, Indonesia, Egitto, Argentina – per rafforzare il cosiddetto Sud del mondo nella sfida a un Occidente a giudizio di Pechino e di Mosca ormai sfibrato e moralmente in decadenza. I paesi del G7 sono ancora in netto vantaggio sui Brics in termini di Pil: oltre 43 miliardi di dollari contro 26 mila. Ma sul fronte della partita del potere d’acquisto (cosa si può comprare, paese per paese, con la stessa cifra) sono già più avanti i Brics. Logico che l’Occidente cominci a preoccuparsi, anche se l’amalgama fra i sistemi politici dei paesi in crescita appare piuttosto complicato. Tanto più che, al di là dell’amministrazione delle ricchezze planetarie, il disegno di Pechino tende a dimostrare la perdita di tenuta della democrazia liberale, appesantita dagli estenuanti rituali delle mediazioni, a fronte del decisionismo magari brutale ma più veloce delle autocrazie.
Che Pechino sia seriamente intenzionato a distribuire un po’ dappertutto le carte lo dimostrano i suoi più recenti successi. In primo luogo la mediazione per l’accordo di pace fra Iran e Arabia Saudita che ha fatto crollare il muro di antagonismo fra l’lslam sciita e quello sunnita e, in subordine, ha predisposto le premesse per la pace nello Yemen straziato da una guerra civile pilotata proprio da Teheran e Riad. Poi i progressi di penetrazione commerciale con il Memorandum sulla Via della Seta che coinvolgono anche l’Italia, l’unico paese del G7 che ai tempi del governo gialloverde ha aderito al patto con Pechino.
Biden ha da tempo richiamato all’ordine il nostro attuale esecutivo che ha tempo fino alla fine di dicembre per sganciarsi e rientrare in toto nel binari occidentali. L’orientamento di Palazzo Chigi è quello di uscirne, anche se si temono le ritorsioni di Xi Jinping. Che però, pur muovendo una sorta di guerra ideologica all’Occidente, non ha molto interesse ad allentare gli scambi commerciali con l’Europa e neanche ad arrivare a un disaccoppiamento dagli Stati Uniti. La locomotiva cinese ha ripreso a marciare a pieno regime ma senza gli spettacolari risultati di un tempo almeno in termini di Pil. Le classi medie dopo il Covid sono in affanno e si registra un crescente livello di disoccupazione giovanile soprattutto fra i laureati.
C’è, infine, il nodo di Taiwan. Xi Jinping non perde occasione per ribadire che l’isola separatista deve ritornare sotto la sovranità della Cina. Con le buone o con le cattive maniere. Per concretizzare il concetto scatena esercitazioni militari intorno alle coste prospicienti, quasi sempre in coincidenza con le visite delle autorità americane. La riannessione per Pechino è diventata un dogma che non ammette negoziazioni nei vertici diplomatici.
Nel prossimo gennaio a Taipei si voterà. La frazione attualmente al potere aspirerebbe a una maggior legittimazione internazionale come garanzia di difesa. Il gruppo all’opposizione, il Kuomintang (erede del vecchio partito nazionalista cinese che dopo la vittoria nella guerra civile dei comunisti di Mao fu costretto a riparare a Taiwan), ha canali di contatto con Pechino e vorrebbe che la convivenza pacifica rimanesse inalterata. Senza bisogno di renderla ufficiale per non provocare inutili tensioni. Xi Jinping spera che il dialogo con il Kuomintang possa aprire spiragli per un’unificazione senza spargimento di sangue. Ma il precedente di Hong Kong, che da passaggio indolore è degenerato in una prova di forza, non incoraggia questa soluzione.
In alternativa aleggia sempre l’incubo dell’invasione militare. Che costringerebbe gli Stati Uniti a intervenire in difesa di Taiwan. Una guerra che secondo gli esperti potrebbe scoppiare nel 2027, centenario della nascita dell’Esercito popolare cinese. Prima di esercitare un’opzione Xi Jinping avrebbe tutto il tempo per studiare gli sviluppi e le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina. Valutando se e quanto gli possa convenire la replica di una avventura così azzardata.
C’è anche una corrente di pensiero che manda in giro un’ipotesi machiavellica. Biden minaccia fulmini e saette contro l’eventualità di un attacco cinese. Ma sotto banco non ostacolerebbe la soluzione militare. Per delegittimare la Cina agli occhi dei suoi attuali alleati nella scalata alla supremazia mondiale. Declassandola nella lista degli Stati canaglia, nemici della libertà e dello stato di diritto. Proprio come è successo alla Russia putiniana.
(Associated Medias) – Tutti i diritti sono riservati