di Gianni Perrelli
Dopo il frettoloso ritiro degli Stati Uniti dal pantano dell’Afghanistan sono spirati sempre più intensi i venti di una nuova guerra fredda che si annuncia meno asimmetrica dell’antica sfida fra Washington e Mosca. L’Urss era dotata di un potenziale bellico spaventoso, di centri di ricerca sofisticatissimi e di una forte capacità di penetrazione ideologica. Ma aveva un’economia troppo ingessata e squilibrata, non sufficiente a fronteggiare la corsa al riarmo, rispetto alla dinamicità del capitalismo americano. Un handicap che sembra non riguardare la Cina che ha fatto crescere il Pil perfino durante la pandemia e minaccia di scalzare l’America in affanno sul trono dell’economia mondiale entro il 2049 (centenario della Repubblica popolare). L’equilibrio del terrore impedirà probabilmente anche stavolta che il conflitto diventi caldo. E almeno a livello diplomatico una frenata è in atto.
Joe Biden, nel suo discorso improntato alla prudenza nell’Assemblea generale dell’Onu, ha escluso la prospettiva di una guerra fredda. E Xi Jinping, collegato in streaming (non si muove da 600 giorni dalla Cina) si è affrettato a rassicurarlo che non cerca l’egemonia planetaria ma un dialogo fra grandi potenze basato sul reciproco rispetto. Al di là delle sfumature dialettiche, il presidente americano ha però anche ammonito che certe linee rosse non possono essere superate. Invocando un’alleanza con i paesi amici “contro ogni tentativo delle autocrazie di dominare i deboli, conquistare nuovi territori con brutalità, coercizione economica e disinformazione”. A mali estremi estremi rimedi.
Nella realtà parlano già i fatti. Pur allontanando l’allarme di uno sviluppo bellico l’America si sta attrezzando per affrontare un duello che si svilupperà per decenni e che già investe tutti i settori strategici dello sviluppo.
La Cina che intensifica le azioni di disturbo verso Taiwan su cui, alla stessa stregua di Hong Kong, intende recuperare la piena sovranità. E l’America che nell’area indopacifica promuove l’Aukus, un’alleanza strategica con Gran Bretagna e Australia (sorta di Nato sul fronte orientale), offrendo al governo di Canberra i sommergibili a propulsione nucleare (operazione che ha fatto saltare i nervi a Parigi per l’annullamento di un precedente accordo di forniture navali). La Cina che tramite i legami con il Pakistan, sponsor dei talebani, estende discretamente le sue attenzioni verso l’Afghanistan per motivi economici (appetiti verso le terre rare, minerali il cui valore complessivo ammonta a mille miliardi di dollari), geopolitici (l’itinerario della Via della Seta), antiterroristici (l’impegno di Kabul di non fiancheggiare i ribelli musulmani nello Xinjang in cambio di aiuti finanziari). E l’America che di riflesso in Oriente stringe i bulloni del Quad (Quadrilateral Security Dialogue), patto sui temi della sicurezza stipulato con India, Giappone e Australia.
La Cina che ritiene decadente, tristemente avviato al declino se non alla guerra civile (assalto lo scorso gennaio al Campidoglio, triste cascame del trumpismo), il pensiero liberal-democratico esaltando con ondate massicce di nazionalismo il suo socialismo di mercato. E l’America che pone l’accento sull’assenza di libertà e sulla negazione di diritti elementari che, nonostante i passi da gigante nella macroeconomia, offuscano l’immagine vincente della Cina come dimostra la brutale repressione a Hong Kong. La Cina che per non allontanarsi troppo dai principi base del potere comunista (e scossa anche dalla spaventosa bolla della Evergrande, il colosso dello sviluppo immobiliare) parte all’assalto della plutocrazia cercando di circoscrivere le macroscopiche differenze di reddito prodotte dal capitalismo di Stato con lo slogan della “prosperità condivisa”. E l’America che denuncia apertamente il culto della personalità di Xi Jinping che tenta di rinverdire il mito di Mao Tse Tung, “il grande timoniere”. La Cina che rinforza il suo arsenale missilistico e strappa la leadership planetaria sulle flotte navali. E l’America che si vede costretta a rispondere alla sfida ingaggiando una nuova corsa al riarmo. La Cina che accelera sulla strada dei progressi tecnologici, puntando al primato mondiale. E l’America che non è più disposta a condividere i segreti delle sue ricerche accentuando il decoupling (vedi caso Huawei). La Cina che, come l’Unione Sovietica ai tempi di Gagarin, si sforza di consolidare il suo status di grande potenza anche lanciandosi nell’esplorazione dello spazio. E l’America, che negli anni Sessanta aveva conquistato la Luna, programma uno spettacolare sbarco dell’uomo su Marte.
C’è troppa carne al fuoco. Resistono troppe tensioni aperte e latenti per ritenere esagerata l’ipotesi di una nuova guerra fredda. C’è un clima tossico che ha già costretto l’Europa, relegata anche da Biden a partner sulle questioni climatiche più che sulla sicurezza internazionale, a ripiegare su se stessa e a cercare faticosamente un suo sentiero di autonomia strategica fondato su un esercito continentale. L’alleanza anglosassone dell’Aukus ha come fine principale il compito di ammansire le pretese della Cina e di minacciarla se, fraintendendo i segnali debolezza derivanti dal ritiro Usa da Kabul, puntasse all’invasione di Taiwan. A Bruxelles, in sintonia con la Nato, sarebbe delegato l’obiettivo di contenere la Russia (anche se da protagonista è retrocessa a comprimaria quale potenziale sponda di Pechino in chiave antioccidentale).
E’ ovviamente una guerra fredda che prospetta scenari completamente diversi rispetto a quella che si concluse con la caduta del Muro di Berlino. Ancor più insidiosa per l’Occidente perché è principalmente sul terreno dell’economia che la Cina sferra la sua sfida per conquistare lo scettro dell’egemonia mondiale. Determinando una spaccatura fra Washington e Bruxelles perché obbliga per ragioni di convenienza commerciale l’Europa a sganciarsi dagli schemi classici di schieramento e a mantenere vivo il dialogo con Pechino.
Fra i politologi ferve il dibattito sulle possibilità e sui tempi di un eventuale sorpasso della Cina nei confronti degli Usa. Il saggista cinese Minxin Pei, nel libro “China’s Crony Capitalism”, manifesta aperto scetticismo pur non trascurando le dinamiche che in passato accelerarono le crisi degli imperi e che spuntano oggi evidenti nelle crepe del tessuto economico-sociale dell’America.
Se è vero che il Pil globale in costante ascesa della Cina ha raggiunto il 70 per cento di quello americano, con la formazione di un’élite di ricchi e una solida borghesia, non si può sottovalutare che quello pro capite sfiora appena il 25 per cento. Una differenza prodotta dall’enorme divario demografico. La Cina ha un miliardo e 400 milioni di abitanti, gli Stati Uniti 330 milioni. Anche in America permangono sacche di povertà allargate dalla globalizzazione ma in Cina, malgrado la vertiginosa crescita, almeno metà della popolazione delle campagne vive appena al di sopra dei livelli di sussistenza. La maggior ricchezza tuttora espressa dagli Usa, che dal 1880 (quando sorpassò la Gran Bretagna) fino all’ascesa della Cina ha sempre dominato la graduatoria mondiale del Pil con dimensioni fra le due e le quattro volte superiori a quelle del secondo classificato, favorisce l’impiego di maggiori capitali nella ricerca. La Cina si sta comprando pezzi di terzo mondo ma l’America dispone di una rete di amicizie tradizionali nel primo mondo che agevola l’inserimento nelle filiere più produttive e la crescita delle esportazioni. Oltre ad avere migliori università e una popolazione meno esposta al processi di invecchiamento.
La storia insegna che gli imperi prima o poi crollano. Ma in tempi stretti più che dall’aggressività della Cina gli Stati Uniti dovranno guardarsi dalla guerra fredda interna. Dalla faglia prodotta dall’estremismo trumpista e dalla retorica del forgotten man che conservano intatta la forza per appiccare gli incendi del malcontento.
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