Venti di guerra: il ruolo della Cina in tutti i conflitti regionali tra geopolitica e interessi economici

Al di là della politica internazionale che la vede protagonista, la realtà è che la Cina, pur annunciando una crescita annua per il 2024 del 5 per cento ha bisogno di accelerare per compensare i passi falsi delle ultime annate

di Gianni Perrelli

Nelle guerre e nelle conseguenti crisi internazionali che continuano a trascinarsi senza una praticabile via d’uscita le speranze di uscire dall’ossessione di una catastrofe planetaria sono affidate a un convitato di pietra. L’enigmatica Cina di Xi Jinping, il dittatore ieratico e apparentemente defilato dai teatri dei conflitti, che negli ultimi tempi viene tirato per la giacchetta come plausibile architetto di pace. Il segretario di Stato americano Antony Blinken gli fa visita a Pechino per metterlo in guardia contro i generosi invii di materiale tecnologico a Mosca che può essere impiegato anche per usi militari.

Ma più che a lanciare un ammonimento la missione sembra rivolta a stringere un patto provvisorio fra le due superpotenze per impedire che le guerre in Ucraina e in Medio Oriente si allarghino fino a sfociare nell’incubo nucleare. Per Washington, che teme la concorrenza di Pechino nella corsa alla supremazia mondiale ma non può sottovalutare il suo potenziale di influenza geopolitica soprattutto nel Sud del mondo, un interventismo più marcato di Xi Jinping sugli alleati aiuterebbe sensibilmente ad uscire dall’inestricabile ginepraio degli odi incrociati. E ad aprire uno spiraglio verso un disegno di pace.

Xi Jinping, che ama muoversi nell’ombra se le questioni non riguardano direttamente gli interessi della Cina, non promette niente. Sul fronte ucraino smentisce di voler arricchire gli arsenali di Mosca. Ma intanto non indietreggia di un solo millimetro nel fornire incrollabile appoggio a Vladimir Putin. che gli è indispensabile come partner nella sfida di civiltà contro le democrazie e le morali occidentali a suo avviso sfibrate. A cui opporre il decisionismo dell’autocrazia, meno frenato dai contrappesi, e nella sfera dei diritti il rilancio dei valori della tradizione.

Ma al contempo dialoga sotto traccia anche con Kiev, mostrandosi preoccupato per le tragedie del popolo ucraino. Già in passato Pechino finse di rivestire un ruolo di mediatore approntando un piano almeno di tregua che si rivelò aria fritta perché non metteva in minima discussione le rivendicazioni territoriali del Cremlino. E oggi assicura sì la presenza a una prossima conferenza di pace in Svizzera. Avviata però in anticipo al fallimento per il disinteresse apertamente dichiarato della Russia anche solo a prendervi parte.

Xi Jinping sa bene che una sua pressione sul Cremlino potrebbe essere risolutiva. Ma ritiene probabilmente che non sia ancora giunto il momento. Forse aspetta che Putin si indebolisca per gestirlo più facilmente nel ruolo di vassallo. Forse si augura che prima o poi Stati Uniti e Europa ritengano vani gli sforzi di riarmare l’Ucraina che difficilmente avrà la forza di riconquistare tutto il Donbass e la Crimea. Forse aspetta più semplicemente le elezioni presidenziali di novembre negli Stati Uniti per capire in che direzione dal 2025 spirerà il vento. Nel frattempo la Cina, non ritenendo ancora maturi i tempi per spendere la sua leadership a un tavolo negoziale, tiene le carte coperte.

Un po’ più attiva si manifesta l’azione di Pechino in Medio Oriente. Xi ha scarsi strumenti di persuasione nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu, sordo perfino alle richieste di moderazione degli Stati Uniti (storici protettori d Israele). Ma ha la possibilità di intervenire sull’Iran, la potenza mediorientale più nemica dello Stato ebraico, che è riuscito a trascinare a un tavolo di pace con l’Arabia Saudita dopo la sanguinosa guerra per procura nello Yemen. In cui la teocrazia sciita di Teheran sosteneva i ribelli Houthi insediatisi nella capitale Sana e la monarchia sunnita di Riad appoggiava l’esercito governativo arroccato a Sud intorno a Aden.

In più ha un dialogo aperto con tutte le fazioni palestinesi. Al punto da riuscire a convocare a Pechino per trovare uno sbocco sia dirigenti di Hamas (ancora in azione nella Striscia di Gaza straziata) che i capi di Al Fatah (prevalente in Cisgiordania) che continuano a guardarsi in cagnesco. Non è facile capire che piega possano prendere questi contatti. Resta il fatto che Xi si è scomodato in prima persona per condurre i negoziati interpalestinesi. Evidentemente perché la pacificazione in Medio Oriente rientra negli interessi di Pechino impegnata a estendere i suoi traffici e la sua influenza.

Anche in chiave commerciale Xi tesse trattative un po’ in tutte le direzioni. Conferma a Blinken che la Cina non ha alcuna intenzione di entrare in rotta di collisione con Washington. Nell’economia Cina e Stati Uniti possono competere per la supremazia mondiale da rivali e non da nemici. Nell’ottica del derisking (restrizioni ma senza rischi nei rapporti di affari) che ha sostituito la prospettiva del decoupling (separazione) che si era affacciata nei periodi più tesi. Analogo discorso ha rivolto il presidente cinese al cancelliere tedesco Olaf Sholz accorso a Pechino in difesa delle sue aziende messe in crisi dalla aggressiva campagna cinese di esportazioni a basso prezzo. Nell’ottica in questo caso un po’ paternalistica di giustificare le modeste tariffe con il proposito di venire incontro alle momentanee difficoltà finanziarie della Germania.

La realtà è che la Cina, pur annunciando una crescita annua per il 2024 del 5 per cento (che costituirebbe un autentico boom per qualsiasi paese europeo), ha bisogno di accelerare per compensare i passi falsi delle ultime annate. In primo luogo la crisi dei mercato immobiliare, soprattutto nelle grandi città, e la riduzione dei consumi dovuta principalmente al biennio del Covid. E poi il ristagno nel mercato del lavoro dove un esercito di giovani laureati stentano a trovare impieghi adeguati al loro corso di studi. Senza contare l’idrovora delle spese militari, obbligata per reggere il rango di grande potenza e per esercitare crescenti pressioni su Taiwan che Xi vorrebbe ricongiungere alla madre patria entro questo decennio. Anche la Cina, che al momento non è impegnata in conflitti, è costretta a calibrare le sue mosse. Lanciando magari il sasso ma nascondendo la mano.

 

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