Parucche ed extension? Un affaire anche commerciale e politico

di Velia Iacovino

Dalle morbide trecce di Ermengarda alla chioma dorata della Laura amata da Petrarca; dal crine di viola che Alceo attribuisce a Saffo al drappo teso di tenebre della Venere nera di Charles Baudelaire … i capelli delle donne, fili dell’anima per gli antichi egizi, trame di canto per Franco Battiato e per i poeti di tutti tempi, sono simbolo intramontabile di fascino, bellezza ed energia viva. Ma anche fonte inesauribile di un antico business che oggi e’ in grande espansione, che spesso purtroppo si nutre però anche di povertà, disperazione e sfruttamento e viaggia attraverso rotte oscure.

Parrucche ed extension di ogni colore e lunghezza, usate con disinvoltura dai sudditi dei faraoni, dagli Assiri, dai Greci e dai Romani, cadute  a lungo in disuso e poi tornate in auge nel 1630 grazie al re di Francia Luigi XIII che soffriva di calvizie, costituiscono oggi una fetta di mercato che vale 7, 4 miliardi di dollari e che è  destinata a crescere, secondo l’ultimo rapporto dell’istituto di ricerche britannico TechNavio, a un ritmo del 6% l’anno fino al 2024, 8- 9% prima dell’epidemia da coronavirus.

A controllare il comparto è la Cina, numero uno al mondo nell’import dei capelli veri e della loro lavorazione e nell’export del prodotto rifinito. I suoi principali acquirenti sono Stati Uniti (39%) e Africa (37%), con la Nigeria assolutamente in prima linea. Tutti paesi nei quali parrucca ed extension sono considerati prodotti fetish dell’industria della bellezza e dello spettacolo, al contrario dell’Europa, dove invece restano legati a un’idea di posticcio o di malattia, con un’eccezione: il Regno Unito in cui ogni anno vengono venduti capelli veri per una media di 48 milioni di sterline.

Quanto all’Italia, nonostante il trend in aumento delle extension, comparto che tuttavia resta fortemente segmentato e va forte essenzialmente attraverso il web, le parrucche sono soprattutto utilizzate dalle donne che perdono temporaneamente i capelli a causa delle terapie oncologiche, incentivate anche dalla possibilità, in alcune regioni, di accedere  ad un rimborso forfettario a carico del  Servizio Sanitario. Se un set completo di extension può arrivare a costare 500 euro, le parrucche di capelli veri superano i mille euro e se realizzate su misura possono raggiungere i 5 mila, mentre quelle di fibre naturali si attestano intorno ai 200 euro. Costi non sempre giustificati dalla qualità intrinseca e dalla lavorazione artigianale.

Nel nostro paese sono soltanto sette i grandi laboratori in grado di vantare la tracciabilità dei loro prodotti fino a risalire al donatore. Quello che si acquista su Internet o che viene venduto sottobanco  in alcuni saloni di bellezza a prezzi solo apparentemente più contenuti è made in China.  L’ex Impero Celeste è diventato il massimo importatore di capelli veri del mondo e il massimo esportatore di parrucche e di extension e ospita dal 2005 -con l’eccezione di quest’anno- una grande fiera internazionale a Guangzhou, che si tiene tradizionalmente tra la fine di agosto e l’inizio di settembre al Poly World Trade Center Exhibition Hall (PWTC Expo) con oltre mille espositori e 100 top brand. La manifestazione, che è già pubblicizzata per il prossimo anno, è anche uno strumento mediatico che si prefigge di dissipare le troppe ombre e i tanti sospetti che opacizzano la produzione nazionale soprattutto per quanto riguarda la provenienza delle materie usate e le modalità di gestione della forza lavoro nelle fabbriche.

I cataloghi cinesi diffusi online appaiono dettagliati e trasparenti nella presentazione della blockchain delle hair extension e delle parrucche delle diverse e numerose aziende con sedi  su tutto il territorio e offrono una varietà davvero incredibile di prodotti: dai capelli “virgin”, ossia mai sottoposti a trattamento, che sono il top del lusso, pubblicizzati come provenienti da Brasile o Perù, a quelli mongoli, indiani, europei…lisci, ricci, ondulati, nerissimi, biondissimi, castano, mesciati, rossi, corti, lunghi, medi.

Ma non  è sempre tutto oro quello che riluce. Ad alimentare il settore ci pensa anche d un lato la floridissima industria del fake e dall’altra i mercanti che si approvvigionano negli angoli più poveri del mondo: Perù, Brasile, Romania, Ucraina, Romania, Pakistan… dove la preziosissima merce che in Europa ha quotazioni elevatissime – un chilo di capelli chiari, lisci e lunghi 50 centimetri, vengono pagati  alle donatrici fino a due mila euro, 450 euro se la lunghezza è di 20 centimetri- viene estorta a donne e bambine spesso con la violenza, o in cambio di pochissimo denaro. In India e nel sudest asiatico i templi dedicati a Vishnu, la divinità a quattro braccia, sono delle vere e proprie centraline di smistamento di capelli. E’ qui infatti che moltitudini di devote ogni giorno si sottopongono spontaneamente al rito della rasatura per purificarsi e assicurarsi una vita migliore. Si calcola che tra le colonne del luogo sacro di Tirupati, popolare meta di pellegrinaggio dell’Andhra Pradesh, vengano raccolte 70 tonnellate l’anno di capelli, destinati un tempo ad essere bruciati in omaggio al dio blu, ma che oggi invece vengono smistati oculatamente verso le destinazioni più disparate. Preziosissima merce a costo zero, che produce ricavi altissimi resi possibili da vendite massicce a prezzi medi.

Ma oltre al traffico illecito di capelli veri e all’enorme quantità di parrucche ed extension fake, immesse sul mercato, c’è di più. C’è la questione dello sfruttamento del lavoro di milioni di persone in numerosi paesi produttori. A finire sotto i riflettori più di altri  la Cina, ormai da tempo in guerra commerciale con gli Stati Uniti. Agli inizi di luglio un carico di 13 tonnellate di prodotti di bellezza tra cui parrucche fatte di capelli umani, sono stati sequestrati dai funzionari della dogana del porto di New York/ Newark. A maggio le autorità avevano bloccato un altro cargo simile.

Il motivo in entrambi i casi lo stesso: le spedizioni provenivano dallo Xinjiang, la regione rurale autonoma del nord-ovest della Cina, che ospita circa 11 milioni di uiguri, una minoranza etnica prevalentemente musulmana con una cultura e una lingua distinte, perseguitata, secondo quanto denunciato e ripetutamente  testimoniato in varie sedi istituzionali  internazionali dai suoi rappresentanti,  dal regime di Pechino. Il Dipartimento di Stato americano, secondo quanto riferisce la Cnn, stima che oltre un milione di uiguri siano detenuti nei campi di internamento dello Xinjiang, dove verrebbero “sottoposti a tortura, trattamenti crudeli e disumani come abusi fisici e sessuali, lavoro forzato e morte” e anche, le donne, a rasatura coatta, oltre che a privazione del sonno, mancanza di cibo e iniezioni di farmaci.

“È assolutamente essenziale che gli importatori americani garantiscano che l’integrità della loro catena di approvvigionamento soddisfi gli standard etici e umani previsti dal governo americano e dai consumatori “, ha dichiarato subito dopo il sequestro Brenda Smith, vice commissario esecutivo dell’Ufficio del Commercio del Cbp (Customs and Border Protection). Dalle compagnie interessate, alle quali si era rivolta la Cnn, che ha dedicato al caso una mega inchiesta, il silenzio più assoluto. A rispondere al posto loro è stato invece l’Ufficio informazioni della regione autonoma dello Xinjiang che ha condannato “l’azione barbarica” messa in atto dalle dogane americane contro imprese private cinesi “che offrono opportunità di lavoro alla minoranza etnica locale”.

Intanto il 22 settembre la Camera dei rappresentanti statunitense ha approvato con voto bipartisan lo Uyghur Forced Labor Prevention Act, un disegno di legge che mira ad affidare ai produttori di parrucche e agli importatori l’onere di dimostrare l’assenza di lavoro forzato nelle loro catene di approvvigionamento. Attraverso un portavoce del ministero degli Esteri la Cina ha espresso forte indignazione per l’iniziativa, definendola “diffamatoria”.

Sottraendo comunque la tara politica derivante dallo scontro tra Pechino e Washington all’affaire capelli, i conti lo stesso non tornano. Parrucche ed extension restano un business per alcuni paesi, non solo Cina, fondato su povertà e abusi dei diritti umani, che va contrastato.