Recovery Plan: Emanuele “decisivo riunire il Ministero della Cultura e dell’Economia e Finanza”

di Guido Talarico

Nel momento in cui il Paese prova a rimettersi in moto e a recuperare gli effetti disastrosi di 18 mesi di pandemia, sono in molti ad interrogarsi, anche all’interno della comunità scientifica, su quali siano le strade più corrette ed efficaci da prendere al fine di utilizzare al meglio i fondi europei in arrivo. Le visioni, anche tra i ministri che compongono l’eterogenea squadra di governo guidata da Mario Draghi, ma anche tra gli alti burocrati o i docenti universitari, non sono concordi. In uno scenario così complesso ma allo stesso tempo decisivo per il futuro dell’Italia, abbiamo chiesto un parere ad Emmanuele F.M. Emanuele, Presidente emerito della Fondazione Roma nonché Presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, una delle poche personalità italiane ad avere avuto incarichi di rilievo tanto nel mondo accademico e della cultura che in quello delle imprese private e pubbliche.

Professor Emanuele, lei da anni parla di riunire il Ministero della Cultura a quello dell’Economia e della Finanza, sottolineando l’intrinseco e indissolubile legame, in un Paese come il nostro, di questi due ambiti. La Sua è ancora una visione valida?

Lo è assolutamente e ancor di più nei tempi che stiamo vivendo poiché l’economia del nostro Paese, florida negli anni che furono, a causa non soltanto della pandemia ma di leggi sbagliate, di interventi economici discutibili, di visioni contradditorie, ha fatto sì che la grande industria statale non esista più e, privatizzata, ha cessato di svolgere il compito salvifico che aveva preminentemente per le aree mediterranee e meridionali; quella privata è o in crisi oppure è trasmigrata in altre aree europee o mondiali; l’agricoltura langue in carenza di progetti che abbiano una validità propulsiva e la memoria di chi, come me, ha molti anni sulle spalle torna sempre alle iniziative discutibilissime che furono rappresentate dagli espropri o quella che si chiamò, specie nel Sud, la riforma agraria contro i latifondi, frammentati successivamente in spazi impossibili a produrre per le loro ridottissime dimensioni e inaccessibili agli abitanti dei luoghi vicini, con la fine di quella grande potenzialità che essi avevano. Il commercio è messo a dura prova da Amazon e, allora, a noi rimane soltanto ed esclusivamente la bellezza incommensurabile dei luoghi e delle nostre città, che si susseguono ininterrottamente come capolavori d’arte, da Venezia a Palermo, e la qualità delle opere d’arte che in esse sono racchiuse e che continuano a prodursi grazie alla sintesi che le nuove generazioni stanno svolgendo tra il mondo del passato e quello odierno, e poiché il Ministero dell’Economia o dello Sviluppo Economico, nonostante gli sforzi, non ottiene molto nei progetti di sviluppo dell’economia nel nostro Paese, e il Ministero dei Beni Culturali è privo di risorse sufficienti da anni, forse far diventare, in una doverosa sintesi, una struttura unitaria porterebbe a dei risparmi funzionali e, a mio avviso, a potenzialità produttive nel campo dell’unico settore che ha possibilità per svilupparla.

Come si potrebbero utilizzare le risorse del Recovery Plan per rafforzare il patrimonio culturale del nostro paese?

Premesso che non sono molto convinto del Recovery Plan, perché in una Nazione come la nostra, afflitta da un debito pubblico inarrestabile, per le cose che ho detto prima di una produttività estremamente ridotta, andare a caricarsi di un debito di rilevante entità, condizionato, tra l’altro, dal dover entro tre anni risolvere problemi che da più di cinquanta anni non sono stati né mai affrontati né, tantomeno, risolti da una classe dirigente di ben altro spessore di quella attuale, quali la riforma fiscale, la riforma della burocrazia, quella della Giustizia, appare quantomeno improvvido che ci si avventuri in questa strada di indebitamento. Ma se proprio si dovesse fare, come pare che sia ineluttabile, forse proprio per le cose precedentemente richiamate, una componente sostanziale di queste risorse dovrebbe essere destinata al potenziamento degli spazi espositivi e della meraviglia delle città d’arte che sono l’unico richiamo per il turismo internazionale, che oggi langue per cause pandemiche ma che ci auguriamo presto ritorni e che preminentemente si concentri in quelle città uniche al mondo di cui l’Italia dispone.

Come mai, secondo lei, la categoria degli artisti è stata esclusa da qualsiasi forma si sussidio post pandemico?

È la domanda che mi pongo da tempo, che ho fatto oggetto da parte mia di più di un commento negativo, con tutto il rispetto che ho per i ristoratori, per i parrucchieri, i gestori di palestre e di luoghi di cura estetica, mi pareva doveroso che agli artisti costretti dalla pandemia a vivere reclusi, o quasi, e comunque a non poter mostrare le proprie opere in mostre pubbliche o private, ci fosse stata una contribuzione da parte dello Stato che non è arrivata.

 Cosa dovrebbe fare l’Europa a livello normativo per rafforzare da un lato il patrimonio culturale continentale dall’altro per renderne migliore la fruibilità?

Sinceramente è una domanda alla quale non sono in grado di rispondere, anche perché l’Europa di cui lei parla è un’Europa vocata principalmente alla massimizzazione dei proventi finanziari, poco preoccupata dei problemi sociali e di paesi il cui patrimonio culturale è la loro ricchezza, e che hanno titolo per dire che preesistevano in Europa in tempi lontani, quali l’Italia, la Spagna, la Grecia, come è stato dimostrato negli ultimi decenni.

Qualche settimana fa a Parigi, Francois Pinault ha inaugurato presso la Bourse de Commerce un nuovo museo dove espone tutta la sua collezione. Un esempio di collaborazione pubblico-privato che regala alla capitale di Francia un altro gioiello espositivo di caratura internazionale. Come vanno da questo punto di vista le cose in una città come Roma?

Peggio non potrebbe essere se si pensa che il Museo del Corso di Fondazione Roma a Palazzo Sciarra è in attesa dei permessi per iniziare i lavori del Piano di recupero che consente di disporre di una maggiore area espositiva e far visitare gratuitamente alle categorie sociali meno fortunate (indigenti, malati e anziani) le opere dal ‘400 ad oggi, raccolte dal 1999 al 2015, e tentato vanamente dal 2015 di ampliare l’offerta museale. L’Assemblea capitolina ha approvato il Piano di recupero soltanto con delibera del 16 dicembre 2020 e sono state espletate le formalità di pubblicazione nell’Albo Pretorio, ma, per lungaggini burocratiche, non si possono ancora realizzare e questo è ancora più incomprensibile se si considera che il Museo è aperto, come detto, al pubblico gratuitamente anche con il precipuo scopo di avvicinare all’arte ed al bello coloro che si trovano in una condizione di disagio. Parimenti, lo spazio espositivo di Palazzo Cipolla, gestito dalla Fondazione Terzo Pilastro-Internazionale, che in 22 anni ha realizzato 57 mostre, è stato, per motivi pandemici, chiuso per tre mesi durante la mostra di Manolo Valdés e ciò nonostante che le norme sanitarie adottate prevedessero dei controlli di grande sicurezza e che i visitatori potessero entrare nei locali non più di quattro per volta. Nonostante ciò, abbiamo supportato iniziative pubbliche come quella di recente a Palazzo Braschi, intitolata “Roma. Nascita di una capitale 1870-1915”, e come abbiamo fatto sostenendo le Scuderie del Quirinale e Palazzo delle Esposizioni con ingenti risorse atte a far sì che questi luoghi di cultura privilegiati fossero vitali dal profilo lavorativo.

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