Shoah e Giorno della Memoria: Quel che ha fatto l’Italia e quel che ancora c’è da fare

di Stefano Beltrame

Forse per il covid, forse per la crisi di Governo che ha portato a Draghi, certamente per il lavoro fatto negli anni dal Presidente Mattarella, ma quest’anno le commemorazioni del giorno della memoria sembrano aver segnato un passo in avanti nella coscienza collettiva italiana. Un progresso che, senza retorica, forse non se vedeva da anni. Un passo avanti, nella narrazione di cosa è stato veramente il genocidio degli ebrei, di come ci si è arrivati e di quali sono le responsabilità, anche e soprattutto quelle italiane.

La novità è stata che, quest’anno il covid ha reso impossibili le usuali cerimonie ufficiali. Sui media, il Giorno della Memoria si è quindi evoluto dalla tradizionale cronaca delle commemorazioni formali in un ricco palinsesto tecnologico di programmazioni e vere riflessioni: dibattiti in TV, conferenze in streaming sui social media, film e docufilm, interviste ecc. Nel suo insieme, tutto questo ha costituito un momento di apprendimento e introspezione collettiva che era finora largamente mancato.

Fuori dalla ritualità, i momenti importanti sono stati molti: il convegno promosso dall’UCEI con la Presidenza del Consiglio sui “fascismi di ieri e di oggi”, il docufilm su Primo Levi, l’intervista di Bruno Vespa a Sami Modiano, i film sulla cattura di Eichmann (che hanno costituito un collegamento logico tra la Shoah e la nascita di Israele), il libro di Emanuele Fiano dedicato al padre, i webinar in memoria di Amos Luzzatto, il discorso del Sindaco di Venezia in ricordo di Giuseppe Jona…Una programmazione che ha raggiunto un pubblico ben più vasto del passato e che ha saputo toccare corde più profonde. Vale la pena di rifletterci un momento e forse realizzare l’investimento cognitivo fatto finora.

Quante volte in passato le commemorazioni ufficiali sono sembrate stanche e retoriche? Un format standardizzato con il Prefetto, la comunità ebraica in veste di testimonial e varie autorità civili e militari e la presenza di scolaresche mediamente distratte. Un sopravvissuto allo sterminio che rievoca con dolore – per l’ennesima volta – il suo terribile trauma che sperava invece di poter ormai rimuovere. Tutti recitano infine meccanicamente il “mai più”, senza che la grande maggioranza degli astanti abbia veramente coscienza di cosa. Il tutto con un lontano, ma costante, rumore di fondo di strumentalizzazioni contingenti che non dovrebbero trovare spazio quando si parla di Storia ormai pacificamente condivisa.

Un’impostazione rituale un po’ farisaica, basata non tanto su di una vera consapevolezza del fenomeno e condivisione del dolore da parte dei non ebrei, quanto piuttosto sulla rimozione di quello che si proclama di voler ricordare. Non a caso, nel tempo, in queste occasioni le gaffe e gli incidenti diplomatici si sono sprecati.

Come se si parlasse infondo di un problema solo tedesco. Come se le colpe fossero quindi, in fondo, solo della Germania e noi italiani -brava gente- fossimo, alla fine, tutti solo vittime. Come se la cosa interessasse, in fondo, solo gli ebrei.

Molta strada è stata fatta negli ultimi anni, ma noi italiani non abbiamo ancora veramente interiorizzato cos’è stato il trauma della Shoah e delle leggi razziali degli anni ’30. La Storia che si insegna a scuola arriva con fatica alla prima guerra mondiale e quello che è successo dopo è ancora molto confuso e divisivo, se non semplicemente ignorato. Lasciando così la porta aperta alle narrative più disparate che si trovano in rete.

La verità è che, nel giorno della Memoria, noi recitiamo il “mai più” con la tacita consapevolezza, in cuor nostro, che, purtroppo, la possibilità che qualcosa del genere si possa un giorno di nuovo ripetere in realtà esiste. Che nel nostro mondo globale c’è ancora qualcuno che vorrebbe la distruzione di Israele. Che le cose col tempo, anziché migliorare, sembrano peggiorare. L’antisemitismo non è morto e sepolto nel bunker di Hitler su cui oggi, a Berlino, sorge il monumento al genocidio. No, l’orrore antico riemerge su internet e sui muri nelle sue forme vecchie e nuove. Quello che è successo più volte in Francia è sotto gli occhi di tutti, come possono, come possiamo, sentirci sicuri? E’ accaduto, quindi può accadere di nuovo, scriveva Primo Levi.

Un passaggio molto importante di questo giorno della Memoria è stato quindi il webinar promosso dall’UCEI con la Presidenza del Consiglio in cui la storica Annalisa Cegna, in quindici minuti, ha delineato in maniera asettica, quasi chirurgica, lo svolgimento delle politiche antisemite italiane dal 1938 al 1945. Un quadro terribile e traumatico ben noto agli storici, ma certamente non al grande pubblico che si identifica con una narrazione identitaria nazionale ben diversa.

Per gli storici stiamo parlando del problema della “mancata Norimberga italiana”, ovvero della sostanziale impunità per i crimini di guerra fascisti commessi in Jugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia. Un processo avrebbe obbligato l’Italia a prendere atto e fare i conti con le sue responsabilità. A storicizzare il fascismo (e l’antifascismo) basandosi sui fatti e non sulle opinioni e le convenienze del momento. Norimberga fu imposta ai tedeschi dagli Alleati, che graziarono invece l’Italia. De Gasperi accettò comunque la responsabilità della sconfitta firmando il Trattato di Pace, ma il Paese era diviso ed anche quella divisione contribuì ad impedire una vera presa di coscienza collettiva che ancora oggi manca. In base al Trattato di Pace l’Italia avrebbe dovuto consegnare ai vincitori i criminali di guerra. Gli Alleati delle Nazioni Unite chiesero di punire più di mille persone, ma questo non avvenne.

Come scrive Yuval Harari nelle sue 21 lezioni per il XXI secolo, negli ultimi anni c’è stata molta confusione sull’esatto significato del termine fascismo e, dice Harari, si tende a qualificare come “fascista” quasi tutti coloro che non ci piacciono. Noi siamo tuttavia italiani e per noi fascismo è anzitutto un periodo ben identificato della nostra Storia. Una fase che confluisce nella disfatta traumatica della seconda guerra mondiale, nell’occupazione nazista e nella tragedia della Shoah.

Bene ha fatto quindi la Presidente dell’UCEI, Noemi Di Segni, a portare il dibattito proprio su questo punto e nel dare la parola ad Annalisa Cegna. Bene ha fatto poi a rispondere pubblicamente al membro di casa Savoia che, a distanza di 83 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, ha chiesto perdono per gli errori dei suoi antenati. Il gesto personale è certamente apprezzabile, ma, ha rilevato l’UCEI, il perdono non può essere chiesto per conto terzi ed i conti con la Storia non si possono eludere. La ratifica reale alle leggi razziali ha aperto la porta della collaborazione dello Stato italiano allo sterminio nazista. Che questo pubblico pentimento arrivi dopo ben 83 anni è la riprova di quanto a lungo in Italia il tema sia stato rimosso.

A questo scambio tra l’UCEI ed i Savoia si è sovrapposto il docufilm sulla vita di Primo Levi trasmesso dalla RAI che, incidentalmente, ha toccato anche lo punto specifico del perdono. Nel film si vede che Levi, sopravvissuto ad Auschwitz ed autore del celebre “Se questo è un uomo”, viene posto davanti al problema. Uno dei suoi vecchi carcerieri tedeschi, peraltro uno che con lui era stato anche umano, lo chiama al telefono dalla Germania per chiedere scusa ed ottenere il suo perdono. Con travaglio interiore Levi si nega. La questione non è personale, come si può concedere il perdono per tanta disumanità? Ed a che titolo dovrebbe farlo proprio lui, che oltretutto è sopravvissuto? Il tema, a quanto pare, è ancora di attualità.

L’altro passaggio simbolico di questo 27 gennaio è l’intervista di Bruno Vespa a Sami Modiano nel salotto televisivo di porta a porta. Non può infatti sfuggire a nessuno che Vespa ha in libreria un volume dal titolo: “Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)”. Confesso che non ho letto il libro (trattandosi di un’opera divulgativa, non credo che contenga cose che non sappia già), ma è innegabile che, pur su di un piano molto diverso, contributi di questo tipo convergono nel portare l’attenzione sul problema sollevato dal convegno dell’UCEI. Come Levi, anche Sami Modiano è sopravvissuto ad Auschwitz e, da qualche lustro, offre la sua opera di testimonianza come una forma di servizio civile.

L’intervista di Vespa si svolge in un clima cordiale e disteso. Si vede che i due si conoscono e si stimano. In tempo di Covid, Modiano è stato uno dei primi ad essere vaccinato ed è quindi diventato anche un po’ il simbolo di un Paese che vuole proteggere i suoi anziani.

Per Vespa i fatti di cui dobbiamo avere memoria sono ormai ben noti e non serve ripetere stancamente cose già dette. Andiamo avanti. Il momento più emotivamente forte non è quindi il ricordo di Auschwitz, ma quello del 1938. Quel giorno di settembre in cui il piccolo Sami si svegliò la mattina da bambino normale come tutti gli altri, ma dovette andare a letto la sera come un ebreo reietto. Burocraticamente secluso dagli altri bimbi ed espulso con ignominia dalla scuola. Il trauma sconvolgente dell’improvvisa privazione del proprio legittimo posto nella società.

Oggi una cosa simile ci pare inconcepibile. Oggi sappiamo che quello fu invece il primo passo di un percorso di sola andata che porterà Sami verso Auschwitz. E’ inconcepibile, ma è successo. Può succedere ancora? Oggi meglio di ieri stiamo capendo che è arrivato il momento di fare tutti i conti con la nostra Storia per quello che è. Senza indugiare ulteriormente in rimozioni che, nel XXI secolo, è tempo di superare.

Grazie quindi a Noemi Di Segni per aver dato salutare impulso a questo percorso di introspezione storica verso una crescente consapevolezza del passato. Un percorso, è opportuno ricordare, già avviato da qualche anno grazie ad uno specifico e costante impegno del Presidente Mattarella.

Nel 2018 Il Presidente andò in Grecia per presenziare alla sfilata militare del giorno del No, l’anniversario della disastrosa aggressione fascista del 1940. Una data che oggi Atene celebra come sua festa nazionale. Un gesto dal grande valore simbolico che pochi in Italia hanno colto, ma che in Grecia non è sfuggito a nessuno.

Due anni fa il Capo dello Stato accolse a Fivizzano, in Toscana, il Presidente federale tedesco Steinmeier per commemorare assieme una strage nazi-fascista. Steinmeier già nel suo primo viaggio in Italia del 2017 aveva reso omaggio alle vittime delle Fosse Ardeatine rinnovando l’assunzione di responsabilità della Germania e la richiesta di perdono. A Fivizzano, parlando in italiano, il Presidente tedesco ha citato Primo Levi: Comprendere è impossibile, ma conoscere è necessario. Perdono e riconciliazione non possono essere pretesi e la Germania è grata per la possibilità che le è stata concessa di ricostruire le relazioni bilaterali e di costruire assieme l’Europa. Il Presidente Mattarella ha risposto ricordando che Italia e Germania furono assieme nello scatenare la follia omicida e sono fianco a fianco nel chinare il capo davanti alle vittime e ad invocare il perdono.

L’anno scorso il Capo dello Stato ed il suo omologo sloveno Pahor hanno ricordato assieme l’incendio per mano fascista del Narodni Dom, la Casa del Popolo degli sloveni, a Trieste del 1920. I due Presidenti hanno quindi reso omaggio ai caduti della foiba di Basovizza ed al monumento ai caduti sloveni.

Se una piena una consapevolezza collettiva di cosa sia stato il fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale e la tragedia finale dello sterminio ebraico non è certo stata ancora raggiunta, il percorso è comunque stato avviato.

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