Tragedia Mottarone: su quella funivia maledetta, dove bellezza e orrore si sono dati appuntamento

di Guido Talarico

Sono stato su quella maledetta cabina della funivia che collega Stresa con il Mottarone. Proprio lì, proprio su quella tratta.  Io che soffro di vertigini, man mano che salivamo, scavallando valloni e precipizi, ero riuscito a distogliere lo sguardo dai vuoti paurosi che avevo sotto i piedi e ad allungarlo verso l’orizzonte, verso la magnificenza di un luogo incantato. Era prima del Covid.  Da quella funivia si gode una vista mozzafiato, sembra un’ascesa verso il paradiso. Più sali, più si allarga lo sguardo, più aumenta la gioia. Un percorso a cavallo tra due regioni, il Piemonte e la Lombardia. In basso il lago Maggiore, lo splendore delle isole Borromee circondate da montagne irripetibili. Le immagini di queste ore brutalmente stravolgono quei ricordi, cancellando la dolcezza di quella luce, di quei colori, di quel posto. E’ sempre così: sembra che la bellezza non possa conoscere la ferocità del male, perché nel sentire comune le cose che addolorano non possono convivere con luoghi di fascino e con momenti di gioia.

Un posto bello può fare orrore? Sembra una contraddizione eppure è così: anche posti magnifici possono trasformarsi in luoghi di pena . Non siamo alla “banalità del male” con la quale Hannah Arendt descrisse il processo per crimini di guerra ad Adolf Eichmann, il funzionario nazista responsabile di aver organizzato la deportazione di milioni di ebrei. Sono situazioni diversissime accomunate tuttavia proprio dal fatto che il male può arrivare ovunque, a riprova definitiva della sua intrinseca ingiustizia, e nelle modalità più diverse: per mano di un ufficiale nazista sordidamente ligio al suo dovere o, per dire, il malfunzionamento dei sistemi di sicurezza. Il male non guarda i posti, non salva le persone, non discerne: colpisce secondo i suoi folli ed incomprensibili calcoli.

E’ successo così, tra un selfie e una risata, che sono morte 14 persone in gita, 14 cristi scelti a caso che ascendevano il Mottarone per ritrovare libertà, per respirare aria buona, godersi il sole e la natura, per riempirsi gli occhi di quelle belle vedute che il Covid per troppo tempo ha precluso a tutti. Ora verranno i lutti con le loro impossibili elaborazioni, quel dolore che prende al petto e che non ti lascia, anche se tu questi 14 non li conoscevi, anche se al dolore, chi più chi meno, siamo tutti abituati.

Poi seguiranno le inchieste: passeremo anni a stabilire perché ha ceduto quella enorme fune che mai avrebbe dovuto cedere, perché i freni di emergenza non hanno funzionato, di chi sono le responsabilità. Da subito invece tutti siamo costretti ad aggrapparci al piccolo Eitan, di cinque anni, l’unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone. Suo fratellino Tom di due anni, i suoi genitori, i suoi bisnonni, ma anche un suo coetaneo, Mattia, tutti morti.

Prima di portarlo in sala operatoria dicono che Eitan si dimenasse, “ho paura, lasciatemi stare”. Hanno dovuto sedarlo. Bisognerà pensare a questo piccoletto rimasto solo, salvatosi miracolosamente mentre la morte gli girava intorno falciando via la sua famiglia e tutti gli altri che con lui dividevano quei dieci metri quadrati di funivia impazzita. Aggrapparsi a Eitan, per aiutare lui ad uscire da questo incubo, a ritrovare vita e serenità e per dare a tutti noi la speranza di poter tornare a guardare quei monti senza sentire il cuore che si stringe, senza dover riflettere che la vita di tutti noi è sempre appesa non ad un cavo ma ad un filo.

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