Gian Maria Tosatti, una prospettiva critica sul rapporto tra arte e istituzioni in Italia

L’intervista al direttore artistico de La Quadriennale sul ruolo della cultura e dell’arte contemporanea, in vista delle elezioni politiche

di Carla Macrì

Gian Maria Tosatti artista dalla personalità poliedrica e acuto interprete della società contemporanea, ha rilasciato un’intervista per Inside Art con il fine di presentare il proprio punto di vista sui temi Cultura e Arte Contemporanea in vista delle elezioni politiche. Direttore artistico de La Quadriennale di Roma ed unico artista del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2022, Tosatti affronta temi che spaziano dalla necessità di capire e narrare l’arte contemporanea italiana, all’importanza di armonizzare competenze e tutele per gli operatori culturali sino al ricorso di un metodo scientifico che possa valorizzare qualità personali con gli effetti benefici del confronto continuo tra studiosi e lavoratori del mondo della cultura.

Siamo già entrati nel triennio di preparazione alla mostra Quadriennale con un programma fitto di attività. Quale bilancio possiamo tracciare finora?

L’idea che l’attività di Quadriennale sia tutta finalizzata alla mostra che si realizza ogni quattro anni è un po’ old fashioned. Noi siamo un’istituzione di ricerca che lavora su molti progetti importanti, che incentivano la conoscenza, lo studio, la produzione critica, l’approfondimento e la promozione nell’ambito del contemporaneo. Lo facciamo 365 giorni l’anno. Ed ora siamo concentrati su quest’ampia rosa di attività. Poi quando ci avvicineremo un po’ di più al 2025, l’anno della mostra – che resta per noi un grande appuntamento -, cercheremo di fare in modo che il patrimonio di lavoro svolto in questi anni, costituisca un riferimento anche per i curatori che si occuperanno di quel progetto. Intanto ci stiamo occupando delle 17 mostre che realizzeremo quest’anno in un nuovo spazio che stiamo allestendo in questi giorni nel centro di Roma.

Si avvicina l’autunno e anche le elezioni. Senza entrare nel merito dei programmi elettorali, si mette bene o male la situazione per il mondo della cultura? Quale panorama si sta prefigurando dal tuo punto di vista?

La politica può fare la differenza sul mondo della cultura solo quando esso sia già in grado di dimostrarsi efficiente di per sé. È un po’ come un’azienda. Se un’azienda è in perdita per mille problemi imprenditoriali interni, gli aiuti di stato non sono mai risolutivi. Il mondo dell’arte italiano ha un sistema pieno di grandi talenti tra gli artisti, tra i curatori e tra i manager. Il problema è che manca di organicità. Un po’ come una squadra di calcio che manchi dei giusti schemi. Credo che la nostra prima preoccupazione debba essere quella di trovare un’efficienza di sistema. Solo allora potrà aver senso dialogare con la politica per capire se il modello che proponiamo possa essere meglio sostenuto. In fondo, i politici sono degli investitori. Noi che proposta gli stiamo portando?
Ripeto, molta qualità, molto talento, indubbiamente, ma poca efficienza di sistema e poca chiarezza. Un investitore che non sia mosso dalla passione credo che non ci troverebbe interessanti. Chiedo scusa se, pur essendo un artista, affronto questo discorso in un modo così freddamente manageriale, ma ogni centesimo che lo Stato investe su una struttura culturale è un centesimo sottratto alla sanità o alla scuola. Quindi è giusto che quei soldi siamo in grado di meritarli garantendo un’efficienza svizzera. Ma attenzione, un approccio manageriale non significa parlare solo di numeri, ma porsi problemi chiari, come ad esempio: che tipo di racconto di sé sta dando l’arte italiana di oggi nel contesto internazionale, affinché possa guadagnarsi una identità chiara e riconoscibile come fenomeno d’insieme, che possa incentivare l’interesse verso i differenti percorsi dei suoi singoli protagonisti? Sostenere l’arte italiana non significa solo avere del denaro per sostenere gli artisti giusti, significa lavorare per costruire una narrazione che sia leggibile ed interessante nel Paese e all’estero. Perché il pubblico si appassiona solo a ciò che riesce a capire. Per cui gli artisti possono essere complessissimi, ma alle strutture che si occupano dell’arte tocca il compito di saperli presentare con chiarezza.

Di che cosa hanno bisogno in Italia gli artisti? In che modo le istituzioni politiche potrebbero valorizzare l’arte contemporanea?

Gli artisti devono essere conosciuti. In Italia crediamo di conoscerli, ma non è così. Con Quadriennale facciamo molte verifiche sugli studenti, sui collezionisti e addirittura sui critici. Il quadro della loro conoscenza è sempre parziale. È come se l’arte italiana fosse uno specchio andato in frantumi. E ognuno ne tenesse in mano solo un frammento. Credo che la prima operazione da fare sia quella di re-incollare tutti i pezzi e poterci riappropriare dell’immagine intera. Una volta ottenuta quella, capiremo anche che profilo emerge di una generazione che sta lavorando negli stessi anni, sullo stesso territorio e affrontando spesso gli stessi problemi. Saremo capaci di connettere i percorsi degli uni con quelli degli altri, trasformando un groviglio di fili in un arazzo chiaro. Dobbiamo quindi favorire la conoscenza degli artisti. Le istituzioni possono fare la loro parte in questo, certo, ma c’è bisogno anche che torni una genuina curiosità e una volontà di aprirsi.

Alcuni partiti hanno inserito nel proprio programma elettorale la necessità di contrastare il volontariato e il lavoro non retribuito nel settore cultura. Da marzo 2021 ad oggi AWI sta apportando, su invito della VII Commissione e XI Commissione del Senato, proposte di modifica e integrazione sul testo unificato del Ddl “Disciplina del lavoro nel settore artistico e creativo.
Quali potrebbero essere a tuo parere soluzioni efficaci per ovviare alla precarietà esistenziale di chi opera nel mondo dell’arte?

A me pare che la precarietà sia un problema del capitalismo in generale, che affligge tutte le categorie. Mettervi mano comporterebbe prima di tutto una rivoluzione culturale, che però non vada solo nella direzione delle garanzie verso i lavoratori, ma anche di una loro formazione decente. È vero che il mondo del lavoro in Italia è in ginocchio per via del precariato, ma è vero anche che, avendo distrutto negli anni le istituzioni di formazione, i lavoratori arrivano spesso ai loro impieghi non sufficientemente preparati. Tutelare il lavoro significa compiere un doppio movimento, anche qui, organico, come il respiro. Migliorare la formazione e, quindi, garantire la stabilità. Altrimenti il rischio è quello di dare garanzie a chi non ha le competenze necessarie. E questo anche finirebbe per costituire un problema. Comunque, io sono un artista. Nel mio lavoro le garanzie non esistono. E se esistessero, forse, sarebbe sbagliato. Fare l’artista è una scelta deleteria, da un certo punto di vista. Lo sapevamo tutti bene fin dall’inizio. L’unica cosa che può garantire il nostro lavoro sono le lacrime dei nostri spettatori. Invece, i tanti manager della cultura, gli impiegati che lavorano nel nostro mondo, loro no, loro fanno dei lavori normali. Impiegato in un’azienda o una galleria non può e non deve fare alcuna differenza. Per loro è giusto che si lavori sodo per garantire la giusta formazione e la giusta stabilità.

L’Italia è l’ultimo paese in UE per partecipazione ad attività culturali. Quali potrebbero essere le strategie da seguire per invertire questa triste tendenza?

Lei andrebbe allo stadio a vedere uno sport di cui non conosce le regole? Credo di no. Non ci andrebbe nessuno. Forse qualche curioso. La cultura italiana, in ogni ambito, ha perso la capacità di sapersi raccontare. La gente non la capisce. Ma il problema non sono le opere. Perché una volta che poi allo stadio ci vai, dopo un quarto d’ora cominci a capire quel che sta succedendo. Il problema è che se non ti è chiaro da subito ciò che andrai a vedere, non sei incentivato a partecipare, ad andare.
Negli anni in cui la partecipazione era grande, parlo di quasi tutto il Novecento, c’erano le avanguardie, un dibattito critico enorme che finiva sulle prime pagine dei giornali. Il Neorealismo, teorizzato nel ’48 da Andrè Bazin, aveva chiarito molto bene cosa stessero facendo De Sica, Visconti e Rossellini. Per questo il movimento ha allungato il suo afflato fino alla fine del decennio successivo ed ha viaggiato nel mondo. Le opere erano buone, certo, ma la differenza l’ha fatta la narrazione. Lo dimostra il fatto che lo stile neorealista fosse adottato anche dal cinema più popolare, penso ai vari “Pane amore e fantasia” o ai film di Raffaello Matarazzo. Il cinema di cassetta, il cinema dei grandi numeri, cercava di somigliare al cinema impegnato. Questo perché i grandi autori del Neorealismo e i critici che lo avevano seguito con passione avevano costruito un discorso chiaro, qualcosa che faceva avvicinare le persone. Allora uno spettatore di quegli anni poteva guardare “Guardie e Ladri” di Monicelli e Steno o “Roma città aperta” di Rossellini come fosse parte di un unico racconto. Ma questo succedeva anche con le grandi avanguardie. Pensiamo al Futurismo che produsse infinite declinazioni del suo spirito in contesti più popolari, dalle arti applicate alla comunicazione. Ma alla base di quel movimento c’era una riflessione condivisa, anche molto interconnessa col contesto storico in cui nasceva (ben prima del fascismo, varrà la pena ricordarlo). Oggi le opere sono buone lo stesso. È la capacità di sapersi raccontare, di saper dialogare con il proprio tempo e la propria società che si è indebolita. D’altra parte quando all’estero fanno un film sull’Italia sono sempre le ambientazioni degli anni ’50 ad emergere. Significa che loro ci hanno capito fino lì. Siamo stati capaci di raccontare noi stessi, all’estero e in casa, fino lì.

Siamo consci delle problematiche che affliggono il sistema dell’arte in Italia ma ci sarà pure qualcosa di positivo. La notte è fonda ma dove sono “le lucciole”?

Di positivo c’è, forse, la migliore generazione di artisti dal dopoguerra ad oggi. Abbiamo degli artisti fantastici, e ritengo che abbiano portato avanti nel loro lavoro delle linee di coerenza molto forti e molto reali. Gli artisti di questa generazione non sono stati tenuti assieme da un orizzonte critico deciso da qualcuno. Hanno lavorato in autonomia finendo per convergere verso una fisionomia indicativa attraverso i propri percorsi. Credo sia un fenomeno di grandissima importanza. Oltre a questo ci sono tanti altri professionisti di ottima qualità. Ci sono alcune istituzioni che stanno facendo tanto, a partire dal Ministero con la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea. Solo i curatori, forse, oggi, dovrebbero mostrare un po’ più di coraggio. Dovrebbero crederci di più e rispondere alla chiamata, che consiste nell’impegnarsi a disegnare l’architettura critica di una generazione senza sudditanze psicologiche. Capendo che i maestri di oggi non sono inferiori ai maestri di ieri e che il postmodernismo, che ci ha fatto dubitare anche di quante dita abbiamo nelle mani, è finito. È iniziato un tempo nuovo che credo sia stato molto ben inquadrato dal filosofo Maurizio Ferraris.

Sin dalla presentazione della Quadriennale, la rassegna è stata presentata come uno strumento di indagine sull’arte italiana, poco conosciuta all’estero e carente di un apparato critico negli ultimi decenni. Cosa pensi verrà fuori da questi anni di ricerca? Quali sono le aspettative?

Le aspettative sono molte. Ma ce ne sono due soltanto che per me sono davvero importanti. Spero di terminare questo incarico avendo dato prova di un metodo di lavoro scientifico e sono quasi sicuro che alla fine di questi tre anni, quando riprenderò a dedicarmi soltanto al mio studio, avrò lasciato sul campo una intelligenza diffusa di una trentina di critici, che, al di là dell’istituzione con cui hanno collaborato per un triennio, anche una volta dispersi in altri incarichi, hanno sviluppato l’abitudine ad interagire continuamente, a lavorare assieme, a confrontarsi. Sono sicuro che questi tre anni di vicinanza legherà il loro lavoro a lungo. Porterà a concepirsi come un insieme. Il segreto è questo: essere unici insieme. Esaltare le proprie caratteristiche particolari all’interno di una rete interconnessa. È questo che crea veramente sistema. Non i neuroni singoli, ma le sinapsi. Spero di andare via da Quadriennale sapendo di aver contribuito a ristrutturare il cervello del sistema.