Afghanistan: Gli Stati Uniti dopo la disfatta ora puntano all’arma della diplomazia

Kabul addio, ma non proprio. A Washington dopo l’evacuazione non rimane che la carta diplomatica. Il ruolo della Banca Centrale

di Velia Iacovino

L’ultimo contingente militare americano, come era stato stabilito e annunciato, ha lasciato, l’Afghanistan la notte scorsa a conclusione di una guerra durata 20 anni, la piu’ lunga che abbia finora impegnato l’esercito statunitense, costata 170 mila vite umane e due trilioni di dollari. Una guerra contro il terrorismo islamico, cominciata subito dopo gli attentati dell’11 Settembre, e nel corso della quale sono stati sganciati oltre 80 mila tra missili e bombe, ma che ha fallito il suo obiettivo finale: assicurare a Kabul un governo stabile e sconfiggere definitivamente il radicalismo islamico nato dalle costole di al Qaeda.

I cinque C-17 americani, che erano rimasti all’aeroporto, sono partiti da Kabul subito prima della mezzanotte, a completamento di una evacuazione che è stata drammatica, lasciandosi dietro moltissimi afghani che erano riusciti a ottenere regolare visto per gli Stati Uniti e un senso di amara sconfitta. Una sconfitta che però il presidente Joe Biden, il cui indice di gradimento è nel frattempo crollato ai minimi termini, è intenzionato a trasformare in una sorprendente vittoria questa volta facendo ricorso all’arma della diplomazia.

“E’ cominciato un nuovo capitolo dell’impegno americano in Afghanistan”, ha annunciato non a caso, il segretario di stato Antony Blinken, che decretando la fine della missione militare statunitense ha paventato l’inizio di una inedita fase nei rapporti con Kabul. Parole le sue che fanno pensare a nuovi negoziati e hanno trovato riscontro sia in quelle pronunciate ieri sera dal capo del comando centrale degli Stati Uniti, il generale Kenneth McKenzie, che durante la sua conferenza stampa ha sottolineato lo sforzo fatto nelle ultime ore dai talebani per assicurare una partenza sicura agli americani. Che nelle dichiarazioni dei nuovi signori di Kabuk che, dopo aver festeggiato la partenza statunitense come una loro vittoria, hanno confermato di essere pronti a instaurare buone relazioni con Washington.

La posta in gioco, su entrambi i fronti è alta. La nuova leadership afghana che aspira almeno a parole a dare a Kabul un governo islamico illuminato e moderno, in cui ci sia spazio anche per l’opposizione, rischia infatti di vedere anzitempo infranti i suoi sogni e di essere cancellata definitivamente se non farà sponda con gli Stati Uniti.

Profondamente divisa nel suo interno, fragile al punto, come ha dimostrato, di non essere stata in grado di impedire la strage kamikaze, firmata dall’Isis il 26 agosto, in cui sono morte 170 persone, è da un punto di vista economico completamente nelle mani dell’amministrazione americana, che ha provveduto a congelare presso la Banca Centrale Afghana quasi tutte le risorse finanziarie del paese in moneta straniera, 9,4 miliardi di dollari, e a bloccare ogni aiuto diretto a Kabul, persino i 450 milioni di finanziamenti varati dal Fondo Monetario Internazionale per fronteggiare l’emergenza Covid 19.

Sull’altro versante, gli Stati Uniti non possono totalmente abbandonare la partita e snobbare i Talebani, in primo luogo perché temono di ripiombare nell’incubo del terrorismo e in secondo luogo perché altrimenti aprirebbero automaticamente le porte della regione al loro nemico giurato, la Cina, agli ayatollah iraniani. In questo scenario, accanto agli Stati Uniti, un ruolo importante è destinato a rivestirlo la Turchia, nella sua veste di membro Nato, supportata dal Qatar, che con i Talebani ha aperto canali di comunicazione privilegiati.

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