Al tramonto l’epoca dell”uomo forte” al comando, ora avanza il modello Draghi

di Gianni Perrelli

Per l’Uomo della Provvidenza è forse giunto il momento di invocare la provvidenza divina. Il leaderismo spavaldo, connotato del capo che non deve chiedere mai, sta entrando in crisi un po’ in tutto il mondo. Minato in parte dal persistere della pandemia che se ne infischia del timore reverenziale suscitato dagli autocrati. Messo in discussione soprattutto dalla accentuata complessità delle relazioni internazionali alla cui soluzione sembrano più adeguati gli strumenti della diplomazia rispetto agli impulsi del decisionismo privo di dubbi.

L’improvvisa fragilità dell’uomo forte indebolisce, almeno nell’immagine, non solo le dittature che hanno peraltro gli anticorpi repressivi per resistere alle insidie. Ma appanna anche le democrazie. Da quelle più potenti che anche quando sono governate da autorità moderate influiscono inevitabilmente con meccanismi forti sui destini del mondo a quelle mascherate (le democrature) che sotto la cornice formale celano scarso rispetto per la libertà di espressione e per i diritti umani.

Alla prima categoria appartiene, con il grado di capofila, Xi Jinping. Il leader cinese che è riuscito a concentrare nelle sue mani più o meno gli stessi poteri che aveva Mao Tse Tung. Anche se sui tempi brevi nulla e nessuno sembrano in grado di scalzarlo, l’erede del Grande Timoniere incontra sulla sua strada sempre più ostacoli nella corsa sfrenata a competere con gli Stati Uniti per la conquista della supremazia planetaria. Il modello cinese, capitalismo di Stato e ubbidienza assoluta alla linea comunista del partito unico, ha fatto galoppare l’economia e ha elevato a un tenore di vita borghese circa la metà della sua sterminata popolazione (quasi un miliardo e mezzo di abitanti). Ma il brutale soffocamento del dissenso, il pugno di ferro contro le minoranze etniche, la dura repressione della democrazia a Hong Kong, la minaccia di riportare Taiwan sotto il tallone di Pechino, l’espansionismo della sfera economica di influenza verso l’Asia, l’Africa, l’America Latina e perfino l’Europa vengono monitorate con grande attenzione dalle altre potenze (gli Usa, in primo luogo). Pronte, al di là del volume di scambi imposto dalla globalizzazione, ad attivarsi per impedire che l’assolutismo di marca cinese conquisti ulteriore terreno fuori dai suoi confini naturali. La Cina appare oggi un gigante relegato in parte dalla diffidenza dell’Occidente in una sorta di limbo che genera attriti costanti.

La ricchezza ha poi prodotto una serie di scandali finanziari che ha fortemente scosso la morale comunista. Da quando Deng Xiaoping nel 1979 diede il disco verde al capitalismo di Stato, sotto il motto “Arricchitevi” (a patto di non creare problemi al partito), non si erano mai verificate tante scorribande finanziarie e tante ruberie. Condotte spregiudicate che hanno svuotato il principio di uguaglianza e di solidarietà sociale su cui a livello ideologico regge ancora l’impalcatura comunista. Gli imprenditori più spregiudicati hanno spinto i loro ritmi di crescita oltre le soglie della tollerabilità, inducendo Xi Jinping a mettere un freno all’arricchimento senza limiti che cominciava a provocare tensioni nella stabilità sociale. La nuova parola d’ordine è “benessere diffuso”. Formula astratta, che vuol dire tutto e niente, ma tende ad ancorare lo sviluppo del paese a criteri di maggiore equità. Ma il governo di Pechino è costretto anche ad affrontare gli ostacoli posti al suo dinamismo dal covid e dall’inevitabile rallentamento della produzione industriale e delle esportazioni. Con conseguente disagio delle classi emergenti che vedono messo a repentaglio il livello di benessere. Xi Jinping gode ancora di una larga popolarità. Ma se in Cina ci fossero libere elezioni il suo consenso oggi non sarebbe così granitico.

Se la passa perfino peggio Joe Biden, il capo della più potente democrazia occidentale, che non ha nulla dell’uomo forte ma che per la carica che ricopre ha in pugno i destini del mondo. Pur avendo varato significative misure nella lotta contro la pandemia e nel sostegno ai ceti più disagiati (i forgotten men che nelle elezioni del 2016 erano rimasti ipnotizzati da Donald Trump) il presidente degli Stati Uniti ha visto sensibilmente crollare i suoi indici di gradimento. In parte a causa della precipitosa ritirata dall’Afghanistan. Ancor di più del dilagante malcontento che negli Usa accomuna ambienti disparati. Dai conservatori che non lo hanno mai legittimato e alimentando un clima di guerra civile minacciano di rimettere in corsa Trump. All’ala sinistra del partito democratico che giudica insufficiente per un autentico cambio di marcia il suo riformismo prudente.

In Europa, dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, in ambasce è anche Emanuel Macron che con la condotta ondivaga (né sinistra né destra, né carne né pesce) non è mai riuscito ad aggregare intorno ai suoi progetti una solida maggioranza e oggi non ha la certezza di una riconferma (nelle elezioni della prossima primavera) che si concretizzerà probabilmente solo per mancanza di convincenti alternative. E un passo appena fuori dall’Europa (dopo la Brexit) è appannata anche la stella di Boris Johnson in Gran Bretagna. Offuscata dal bullismo disinvolto (che pure è stata una componente del suo successo) poco in sintonia con tempi così drammatici, ma soprattutto dall’incostanza con cui ha affrontato le varie fasi della pandemia e dalla confusione con cui sta amministrando i primi passi di una Brexit che, con la spada di Damocle degli scaffali vuoti a Natale, non appare più come nelle sbandierate promesse la valle dell’Eden.

Arrancano a loro volta pure i campioni delle democrature. L’immagine di Vladimir Putin è arrugginita dai troppo anni di permanenza al potere. Sotto cui la Russia ha cercato di rilanciare la sua vocazione imperiale (con un certo successo soprattutto in Medio Oriente e, in questi giorni, con pericolosi appetiti verso l’Ucraina) ma nonostante disponga di immense risorse naturali non ha mai risolto il problema dell’inefficienza economica che condanna ancora larghe fette della sua popolazione al sottosviluppo. Senza contare la patente di inaffidabilità internazionale inflitta dalla durissima repressione della dissidenza (esemplare il caso Navalny). Anche Putin gode ancora di discreti margini di vantaggio sulla disarticolata concorrenza. Ma, come hanno confermato le ultime elezioni, si stanno riducendo sempre di più.

Più flebile si fa anche la voce dei prepotenti. L’ungherese Viktor Orban, teorico della democrazia liberale (classico caso di contraddizione in termini che tanti mal di testa sta provocando a Bruxelles) rischia di essere disarcionato nelle prossime elezioni da un’opposizione finalmente unita. Il premier polacco Mateusz Morawiecki, braccio armato del guru ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski, è messo all’angolo dall’Europa e dalle manifestazioni interne di massa per le restrizioni dei diritti civili. Il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko, dopo la tragedia umanitaria che ha provocato per l’abbandono dei migranti ai confini con la Polonia, è diventato un paria internazionale. Il turco Recep Tayyip Erdogan ha ancora salda la morsa sul paese ma vede crescere l’insoddisfazione soprattutto fra le giovani generazioni per l’autoritarismo, l’avversione alle libertà laiche e alla modernità, la difesa ad oltranza del conservatorismo islamico. Il brasiliano Jair Bolsonaro, spiazzato dalla caduta di Trump, ha sperperato quasi tutta la sua forza elettorale con una gestione scriteriata della pandemia e l’estremismo ideologico di destra che stanno spianando la strada all’imprevista resurrezione di Lula. Il venezuelano Nicolas Maduro è ormai ai margini della scena internazionale, come il nicaraguense Daniel Ortega e il cubano Miguel Diaz-Canel (che amministra con i vecchi parametri del socialismo caraibico ma non ha neanche la tempra del dittatore).

Non è più tempo di approcci muscolari nella complicata giungla del pianeta. Riprendono a farsi largo la competenza, il prestigio, il raziocino, la predisposizione all’ascolto, la moderazione, il buon senso. Il modello Draghi, elogiato anche dalla Merkel nel suo testamento spirituale. Sempre che i nostri rissosi partiti continuino a tenerlo in vita.

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