Cambogia, Hun Sen potrebbe essere confermato di nuovo alle prossime elezioni

Saldamente al potere dal 1985 e molto vicino a Xi Jinping, il Primo Ministro punta a riformare la Costituzione per la terza volta e a costruirsi un ruolo internazionale aprendo all’Occidente, in particolare all’Unione europea

di Lorenzo Lamperti

Trentasette anni. Tanto è durato il regno di Hun Sen in Cambogia. Finora. Perché della successione promessa da qualche anno non si vede ancora traccia. Nel luglio del 2023 sono fissate le nuove elezioni generali, dalle quali usciranno i membri della nuova Assemblea nazionale. La vittoria del Partito popolare cambogiano è scontata e il Primo Ministro dovrebbe essere ancora una volta lui. Per altri cinque anni. Negli scorsi anni sono iniziate le voci sul cambio della guardia, ma il 43esimo Congresso del partito ha stabilito che il candidato per il 2023 sarà ancora Hun Sen. Ma non è ancora chiaro se e quando comincerà la transizione di potere. Anche perché si prevede che la poltrona da Primo Ministro verrà ceduta nientemeno che a suo figlio Hun Manet. Segnale che il leader non mollerà del tutto la presa nemmeno quando lascerà la guida del Governo.

Hun Sen governa il Paese dal 1985. La maggior parte dei cambogiani è nata quando lui era già al potere, che ha conosciuto diverse fasi ma che negli anni sembra essersi consolidato sempre di più. Nato come Hun Bunal, si è cambiato il nome nel 1972 dopo che due anni prima aveva lasciato la scuola monastica a Phnom Penh per arruolarsi tra i khmer rossi. Durante l’insorgenza contro il governo filoamericano di Lon Nol restò ferito durante l’assedio della capitale, diventando cieco da un occhio. Impaurito dalle purghe di Pol Pot scappò in Vietnam, dove diventò uno dei leader della ribellione anti khmer sponsorizzata da Hanoi. Dopo la fine del regime di Pol Pot, Hun Sen cominciò la sua rapida ascesa diventando premier dopo la morte di Chan Sy. Da allora governa col pugno di ferro. Nel 1993, quando l’opposizione di Norodom Ranariddh vinse le elezioni, Hun Sen minacciò la secessione di sette province con il supporto dell’esercito e dell’apparato statale. Il vincitore fu costretto a condividere il potere con lui dandogli il ruolo di secondo premier. Ma nel 1997 Hun Sen lanciò un colpo di stato rimpiazzando Ranarridh col fidato Ung Huot. Da lì in poi ha concesso sempre meno spazio di manovra ai rivali.

L’opposizione cambogiana se la passa male. Alle proteste di massa del 2014 la polizia ha risposto aprendo il fuoco uccidendo quattro persone e ferendone oltre 20. Nel 2017 la Corte Suprema ha sciolto il Partito della salvezza nazionale, principale forza d’opposizione, due mesi dopo l’arresto di Kem Sokha per il suo ruolo in un presunto piano per rovesciare Hun Sen con l’aiuto del Governo statunitense: accuse che lui nega. L’ex Presidente del partito rischia fino a 30 anni di carcere. Sembra essersi creata qualche frattura con l’altro leader dell’opposizione, Sam Rainsy del Candlelight Party. Lo scorso marzo Rainsy, che si trova in esilio dal 2016, è stato condannato a 10 anni di carcere insieme ad altre sette leader dell’opposizione. Le accuse sono legate al tentato ritorno di Rainsy in Cambogia, previsto per il 2019 e bloccato dal governo. Hun Sen aveva esplicitamente chiesto all’esercito di attaccare lui e Mu Sochua in caso fossero atterrati a Phnom Penh.

La stretta è anche sulla società civile. Negli ultimi anni centinaia di oppositori e critici sono stati arrestati e accusati di tradimento per aver preso parte ad attività politiche non violente contro il governo. La Cambogia sembra essere diventata de facto un Paese con un partito unico. Nel 2018 il governo ha emendato gli articoli relativi alla libertà di associazione e ha richiesto ai partiti politici di mettere l’interesse nazionale al di sopra di tutto. Al voto del 2018 il Partito Popolare Cambogiano ha preso il controllo della totalità dei seggi dell’Assemblea Nazionale, mentre alle elezioni locali di giugno, tra diversi sospetti di irregolarità, ha conquistato oltre il 99% dei voti. Le urne diventano di fatto un esercizio con pochi effetti concreti. Ed è per questo che ora il pallino è interamente in mano a Hun Sen, riluttante a cedere proprio nel momento in cui la sua presa si è fatta ancora più forte. Le sue dichiarazioni sono contraddittorie sull’orizzonte temporale del passo indietro (o meglio di lato), ma secondo molti osservatori si potrebbe arrivare anche dopo il 2030.

Il Primo Ministro si è sbarazzato di tutti i nemici, sia esterni sia interni. Nell’ultimo Congresso è riuscito a nominare due nuovi vicepresidenti del Partito: il Ministro della Difesa Tea Banh e il vice Primo Ministro Men Sam An, entrambi suoi stretti alleati. Una mossa utile a rafforzare l’appoggio delle élite militari e ad assestare un duro colpo al Ministro dell’Interno Sar Kheng, l’unico che aveva avuto il coraggio di esprimere perplessità sull’indicazione di Hun Manet come suo successore. Nessuno è in grado di fermarlo se, come pare, vorrà riformare la costituzione per la terza volta in quattro anni. Probabilmente per ridurre i poteri dell’Assemblea Nazionale e aumentare quelli del Primo Ministro. Anche perché la figura del figlio non è amata da tutti. Qualcuno tra i più anziani potrebbe non accettare la rapida ascesa del figlio di Hun Sen, che ha peraltro già dichiarato che imporrà un passo indietro di tutta la sua generazione quando si farà da parte lui. E anche nella generazione più giovane non è impossibile si inneschino lotte di potere.

Nel frattempo, Hun Sen pare volersi giocare il forte controllo interno per iniziare a prepararsi un’eredità da statista anche a livello internazionale. Sfruttando la presidenza di turno dell’Asean (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) per il 2022 ha provato a incidere sulla crisi in Myanmar. Lo scorso gennaio è diventato il primo leader di Stato a visitare Naypyidaw dopo il golpe militare del febbraio 2021. E non ha portato risultati. All’interno dell’Asean, peraltro, c’è chi non vede benissimo Hun Sen. Nel 2012 la Cambogia ha bloccato la pubblicazione di una dichiarazione congiunta sulla contesa tra la Cina e diversi Paesi del Sud-est asiatico sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale. Non è certo un mistero che Phnom Penh sia probabilmente la capitale più inserita negli ingranaggi di Pechino tra quelle della regione. Nel 2022 è entrato in vigore un accordo di libero scambio tra i due Paesi e la presenza della Belt and Road è ampiamente visibile in Cambogia, dai progetti infrastrutturali ai siti turistici come Sihanoukville, popolarissima tra i cinesi prima del Covid-19. A proposito di pandemia, Hun Sen è stato l’unico leader straniero a visitare Pechino tra l’inizio dell’emergenza sanitaria e il febbraio 2022 per i Giochi Olimpici Invernali. Il 5 febbraio 2020, quando Wuhan era ancora in lockdown e il coronavirus sembrava un affare prettamente cinese, il Primo Ministro cambogiano ha incontrato Xi Jinping come segno di solidarietà e vicinanza.

Gli Stati Uniti guardano con sospetto alle manovre sulla base navale di Ream, temendo che possa essere utilizzata dalla marina cinese. Durante la sua visita in Cambogia del 2021, la Vice Segretaria di Stato Wendy Sherman ha cercato chiarimenti sulla demolizione di due strutture finanziate da Washington, ma non le è stato concesso di visitare la base. Timori che sembrano essere stati confermati negli scorsi mesi, quando è stato reso noto dall’esercito cambogiano che imprese ed esperti tecnici delle forze armate cinesi costruiranno e rinnoveranno una serie di strutture della base militare. Ma di recente Hun Sen sembra anche voler migliorare i rapporti con l’Occidente. Alla fine del 2021 ha introdotto una nuova legge sugli investimenti per attrarre realtà straniere offrendo una serie di incentivi, come l’esenzione dall’imposta sul reddito e dai dazi doganali. Mossa che sta rafforzando le relazioni con l’Europa. A inizio agosto, il giorno dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei, Hun Sen ha ospitato a Phnom Penh il Segretario di Stato Antony Blinken, il quale ha sottolineato l’importanza dell’appoggio cambogiano a due risoluzioni delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina.

Nulla è lasciato al caso per mettere al sicuro un potere che in 37 anni non è mai apparso meno traballante di ora.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

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