di Guido Talarico
La pandemia da Coronavirus, come abbiamo visto, è stata affrontata in modi differenti. Ciascun paese, dalla Cina all’Italia, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna o al Brasile, ha cioè combattuto il Covid-19 adottando strategie diverse. Questa constatazione già di per sé dimostra come non vi sia stata e non vi sia tuttora una visione univoca su come affrontare il virus, né in termini sanitari, né in termini economico sociali. La storia dirà chi ha avuto l’approccio migliore, benché alcuni risultati indichino già quali siano state le pratiche migliori. L’Africa non sfugge a questa logica. Anche nel continente giovane, potenzialmente il più esposto alla pandemia per la povertà ancora troppo diffusa e per le carenze delle infrastrutture sanitarie, il virus è stato affrontato in modi diversi. Prendiamo quattro nazioni diverse, l’Eritrea, la Guinea, il Madagascar e il Burundi, come esempi per capire come l’Africa abbia affrontato il Coronavirus.
La piccola ma efficiente Eritrea ha messo la persona al centro della propria attività di prevenzione e cura. Il Governo ha imposto da subito il lockdown, cosa non facile da attuare in Africa dove lo smartworking di fatto quasi non esiste e dove le sistemazioni abitative non hanno gli standard occidentali. Ciò nonostante gli eritrei, notoriamente disciplinati, hanno rispettato il confinamento e si sono sottoposti di buon grado ai vincoli imposti dalle autorità. Il governo di Asmara, presieduto da Isaias Afewerki, al contempo si è mosso su due direttrici: ha provveduto a sostenere la popolazione con un consistente aiuto alimentare e contemporaneamente ha effettuato molti tamponi in modo da individuare ed isolare i contagiati con una certa prontezza.
È una politica che ha pagato anche perché negli ultimi 20 anni il Governo di Asmara nonostante la guerra e l’isolamento ha investito in sanità. In Eritrea, dove prevenzione e monitoraggio continuano, il virus oggi è di fatto sotto controllo. Questo aspetto va sottolineato. L’Eritrea è stata in grado di resistere per più di 20 anni ad una guerra ingiusta combattuta contro nemici enormemente più potenti proprio perché il paese ha sempre avuto fiducia e si è raccolta sotto la guida del suo Presidente, il leader rivoluzionario e padre della nazione Isaias Afewerki. Un’unità che anche in questo frangente sta pagando e portando risultati che altre nazioni più celebrate dell’Eritrea, come ad esempio il Sud Africa, non stanno ottenendo.
In Guinea invece l’approccio è stato diverso. Il Presidente della Repubblica Alpha Condé che, non va dimenticato, è un professore di economia, con un passato di docenza nella prestigiosa università parigina di Science Po, ha trattato l’emergenza sommando l’aspetto sanitario all’aspetto economico sociale. In primo luogo, ha messo in moto tutta l’attività di cura e prevenzione che era possibile attivare, con tanto di chiusura delle frontiere e di coprifuoco notturno oltre ovviamente il lockdown. Misure che in un paese equatoriale abituato a vivere e a lavorare all’aperto è stato oggettivamente difficile attuare. Poi si è speso, usando tutto il suo peso di statista internazionale, per porre alla business community il tema economico di tutto il continente. Alpha Condé in particolare ha preso fermamente posizione nel chiedere la cancellazione del debito pubblico della Guinea e dell’Africa come unico strumento in grado di rimettere in moto l’economia e così arrivare alla creazione di milioni di posti di lavoro.
Condé ha un curriculum di grande peso: oppositore per 42 anni dei regimi totalitari che si sono succeduti nel controllo del suo paese, condannato a morte in contumacia e imprigionato per due anni, vincitore delle prime elezioni democratiche nel 2010, rieletto poi nel 2015, è stato anche presidente dell’Unione Africana dal 2017 al 2018. Insomma, una grande carriera politica figlia di una indiscussa credibilità personale. Anche in campo sanitario. La Guinea infatti tra il 2014 e il 2016 è stata uno dei paesi più duramente colpiti dal virus Ebola, con un tasso di mortalità di circa il 60% che è ben più alto rispetto a quello generato dal Coronavirus. Per fronteggiare quell’emergenza all’epoca furono creati dei laboratori per diagnosticare le febbri emorragiche. Un’esperienza drammatica che i guineani non hanno dimenticato. Quei laboratori si stanno ora rivelando preziosi per combattere il nuovo virus. Ma ciò che più preoccupa Condé sono le conseguenze economiche del Covid-19. Se da una parte gli africani si dimostrano abbastanza resilienti nei confronti del virus – per via delle numerose pandemie che hanno già colpito il continente – sul fronte economico invece le debolezze si mostrano in tutta la loro drammaticità. Basti pensare che la sola Guinea perderà a causa della pandemia non meno di 290 milioni di dollari. Per questo l’ex presidente dell’Unione africana, si batte, per un aiuto concreto e immediato a tutta l’Africa da parte dei paesi ricchi.
«L’Africa soffre soprattutto per via del forte rallentamento dell’import e dell’export. Per attenuare le conseguenze sociali della crisi, i nostri partner economici dovrebbero cancellare totalmente i nostri debiti pubblici, procrastinare i nostri debiti commerciali, accordare ai Paesi africani una maggiore flessibilità sul deficit di bilancio e concedere una nuova disponibilità finanziaria. Senza questi aiuti non riusciremo a fronteggiare le drammatiche crisi sanitarie ed economiche che sta generando il virus», ha dichiarato Condé in una recente intervista.
Poi c’è il caso del Madagascar. Una terza via completamente autarchica. Il presidente, Andry Rajoelina, ha annunciato, non senza clamore, di voler lasciare l’Oms, accusando l’Organizzazione Mondiale della Sanità di una colpa assai grave, vale a dire di volere utilizzare la pandemia per mantenere l’Africa sotto ricatto. Rajoelina ha anche chiesto alle nazioni del suo continente di seguirlo su questa strada, sostenendo anche che il suo paese è in grado di contrastare il Coronavirus utilizzando una medicina estratta dall’artemisia (sostanza naturale efficace anche contro la malaria) e da altre erbe che crescono in Madagascar. Una medicina appunto preparata in loco, che a sentire Rajoelina è in grado di guarire in dieci giorni i malati contagiati dal coronavirus, ma di cui – e questa è l’accusa – l’Occidente e l’Organizzazione mondiale della sanità non vogliono sapere. “E’ un farmaco – ha dichiarato il presidente – curativo e preventivo, grazie al quale il Madagascar non ha registrato finora alcun morto. “E’ forse un prodotto non ok – ha aggiunto con amara ironia Rajoelina – perché realizzato da una nazione che è la 63esima più povera del mondo… ma che vorrebbe comunque salvare il mondo?”. Analizzare e verificare i dati che arrivano dal Madagascar non è facile, ma certamente la posizione di questo giovane e agguerrito presidente merita attenzione e rispetto, se non altro per il coraggio che ne è alla base.
Infine, vi è la posizione del Burundi che potremmo definire “negazionista”. Nel paese che affaccia sui grandi laghi il 9 giugno scorso il Presidente Pierre Nkurunziza è morto improvvisamente, ufficialmente d’infarto. Aveva solo 55 anni. Le cronache ufficiali narrano che lo sportivissimo presidente stava giocando a pallavolo quando è stato colto da un malore che poi, dopo un apparente miglioramento, lo ha sopraffatto portandolo alla morte. Un decesso che ha destato più di un sospetto tra gli osservatori internazionali. Il giornalista sudafricano Simon Allison, ha così commentato su Twitter “il grande interrogativo è se il presidente uscente del Burundi sia morto di covid-19 (e se le autorità lo ammetteranno). Il Burundi ha praticamente ignorato il virus, e ha perfino espulso dal paese i rappresentanti dell’Oms. Secondo alcuni articoli la moglie di Nkurunziza era positiva al covid-19”. Un retroscena che è coerente con la linea che il Governo di Bujumbura si è dato sin dallo scoppio della pandemia: cioè minimizzare e far finta di nulla. Che poi è un atteggiamento non troppo diverso da quello tenuto nella prima fase sia da Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che dal premier britannico, Boris Jonhson. Con la differenza che negli Usa e in Gran Bretagna, grazie ai sistemi di controllo di democrazie più solide, la gravità degli effetti del virus ad un certo punto è emersa costringendo i leader a immediati dietro front.
Insomma, la situazione in Africa, conferma quello che finora è sembrato essere l’orientamento globale prevalente nella lotta al virus, e cioè che ciascun paese adatta le risposte alla pandemia a seconda delle circostanze e delle convenienze locali. Il che è anche comprensibile, visto che ciascuna nazione ha situazioni sanitarie, economiche ed infrastrutturali diverse. Quello che tuttavia emerge come il dato più allarmante è che in termini medici è stato capito ben poco. Al di là delle varie teorie più o meno cospirazioniste sulle origini del male, anche quelle ancora tutte da decifrare, sui rimedi si può infatti dire che la comunità scientifica è stata colta di sorpresa al punto da non riuscire ad indicare un percorso certo.
Dall’iperventilazione polmonare alla clorochina, dalle terapie trasfusionali agli antinfiammatori, dagli antireumatici, al mix di farmaci antivirali fino alle erbe del Madagascar, sembra oramai evidente che la comunità medica sia andata a tentoni. Un percorso accidentato che è costato decine di migliaia di vite umane. A questo punto la questione è il lascito. Cosa dobbiamo imparare dal Coronavirus? E cosa dobbiamo fare per lenire gli effetti delle prossime ondate dello stesso virus o di altre pandemie? La questione più importante è quella etica. Non si può lasciare che le malattie diventino le armi letali, gli strumenti di pressione o di ricatto e tantomeno leve per speculazioni finanziarie. Questo rischio è elevatissimo proprio perché si nutre di due sentimenti pericolosi, vale a dire la paura e l’ignoranza. Il mondo deve dotarsi di nuovi strumenti di controllo in grado di contrastare efficacemente qualsiasi tentativo egemonico e prevaricante di utilizzo delle pandemie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità in questo frangente ha dimostrato tutta la sua inconsistenza scientifica e morale, dovuta in larga parte alla sua dipendenza economica da centri di potere pubblici e privati. Questo è certamente da cambiare. Così come sono da trovare nuovi metodi di protezione dei paesi più fragili e delle popolazioni più povere dai tentativi di utilizzo delle emergenze sanitarie come strumenti di conquista e di prevaricazione. Infine, la questione sanitaria. Covid-19 ha dimostrato che il mondo non è strutturato per affrontare questa tipo di pandemie. E siccome sappiamo già che in futuro i rischi aumenteranno, è evidente che dobbiamo investire in infrastrutture sanitarie e in ricerca scientifica. Facendo attenzione, anche qui, che la ricerca abbia innanzitutto una destinazione etica, che farmaci e vaccini vadano a tutti e non ad ingrossare le tasche di pochi.