Covid-19: Tedros, Xi Jinping e Bill Gates, le relazioni pericolose

di Velia Iacovino

Invisibile, velocissimo, smart. E’ degno figlio di questi nostri tempi hitech il supervirus che sta mettendo in ginocchio il mondo e sconvolgendone i vecchi equilibri. Un’arma letale, che ha mandato in fumo in pochi mesi la strategia della deterrenza nucleare, il multilateralismo e le dinamiche della globalizzazione e che ha minato alle fondamenta già fragili alleanze, restituendo in qualche modo attualità a quella visione della politica internazionale fondata sull’idea di nazione senza porte né finestre, inaccessibile e indipendente, ciascuna impegnata a difendere la propria sovranità e i propri interessi in nome della ragion di stato. Una visione, che si impose in Europa dopo la pace di Westfalia del 1648 e che portò a un sostanziale spostamento del centro di gravità del continente da sud a nord, dando un impulso senza precedenti all’ascesa di paesi come Francia, Olanda, Gran Bretagna, Svezia, e alla trasformazione dell’economia mercantile in moderno capitalismo con i detentori del potere finanziario che si sostituirono nel gestire i destini del pianeta alla Chiesa e agli imperatori non solo attraverso lo strumento del denaro, ma anche quello nascente dell’informazione.

Certamente la storia ha i suoi ricorsi, e certamente altri sono oggi gli scenari e altri i background. Ma quella weltanschauung superata e solipsistica sembra oggi tornare di moda, portatrice di un nuovo e pericoloso ordine mondiale, che potrebbe far compiere un passo indietro all’umanità, cancellando d’un colpo, in nome del progresso, della salute, della sicurezza, aspirazioni e diritti faticosamente conquistati, approfondendo solchi sociali e distanze tra ricchi e poveri. In un momento come questo dobbiamo porci interrogativi e cercare risposte. E’ lecito farlo. E’ lecito porsi interrogativi su quale sia l’origine del virus Covid-19. E in che modo la Cina abbia gestito la comunicazione sulla diffusione dell’epidemia.  E’ lecito chiedersi qual sia il legame tra Pechino e l’Oms. E perché il presidente di una superpotenza come gli Stati Uniti abbia sospeso i fondi a quello che è il massimo organismo internazionale a tutela della salute mondiale. E ancora: chi siano i principali donors dell’Organizzazione mondiale della sanità. E se La partita per il vaccino sia davvero così vitale per il nostro futuro.  Farsi domande su ciò che appare vero e ciò che appare falso, analizzare i fatti nelle loro pieghe, è un doveroso esercizio di libertà.

Il laboratorio di Wuhan

Partiamo, dunque, dall’inizio. Dalle misteriose origini del Covid-19 e dal laboratorio che ha sede a Wuhan, capoluogo dell’Hubei, provincia della Cina la cui superficie è per estensione poco più della metà di quella italiana e che conta 57 milioni di abitanti, quasi quanti ne vivono nel nostro paese. L’esistenza del famoso centro di ricerca sui virus non è una fake news, né un’invenzione letteraria. Il laboratorio, che si fregia, quanto a biosicurezza, del livello 4 (cioè il massimo secondo i parametri internazionali) è stato inaugurato nel febbraio del 2015 con lo scopo di studiare i virus, in particolare quelli che dagli animali si trasmettono all’uomo, nell’ambito di un ambizioso progetto di cooperazione ufficialmente avviato con Parigi. Alla cerimonia erano presenti come rappresentanti francesi il deputato all’Assemblea nazionale Jean-Marie Le Guen e il multimiliardario lionese Alain Merieux, presidente dell’Institut Biologique Mérieux, fondato nel 1864, holding legata alla Sanofi Pasteur, la più grande società di vaccini mondiale.

Il filo rosso che porta a  Washington 

Ma al lab 4 di Wuhan non si è interessata solo la Francia. Alla realizzazione del Centro hanno partecipato anche gli Stati Uniti, attraverso il Galveston National Laboratory dell’Università del Texas, le cui ricerche vengono finanziate dai Niaid, presieduti dall’immunologo di fama mondiale Anthony Fauci (storico collaboratore per le ricerche sull’Aids della Fondazione Bill e Melinda Gates) che il presidente Donald Trump ha voluto nella task force istituita per combattere il Covid 19 e con il quale si è più volte pubblicamente scontrato; dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti; dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie; e da altre agenzie federali e dall’industria biofarmaceutica. Il Galveston National Laboratory è uno dei 15 centri di eccellenza in cui si studiano i virus negli Stati Uniti e il direttore  James LeDuc, ex funzionario dei Cdc,  non ha mai smentito il legame con Wuhan e anche recentemente ha confermato, per averlo constatato di persona, gli alti standard del centro cinese, di cui ha anche addestrato alcuni ricercatori. Una testimonianza che appare in contraddizione con gli allarmistici messaggi cablati – classificati come file sensibili ma non top secret- inviati nel marzo 2018, secondo quanto ha riferito  il 14 aprile scorso il Washigton Post, da una delegazione  statunitense guidata dal console generale nel capoluogo dell’Hubei, Jamison Fouss,  che era stata in visita al laboratorio di Wuhan e nei quali si segnalavano forti rischi legati alla sicurezza e alle carenze del centro,  che in quel momento si stava occupando dei coronavirus dei pipistrelli.

La via del virus 

Secondo le ricostruzioni ufficiali, il Covid 19 avrebbe fatto la sua prima comparsa in Cina, già dallo scorso ottobre, diagnosticato come polmonite grave non batterica, anche se le prime ammissioni ufficiali di Pechino risalgono solo al 31 dicembre. Ammissioni che si erano rese necessarie dopo che sul web si era diffusa notizia di una misteriosa epidemia nello Hubei. A svelarne l’esistenza l’oculista cattolico Li Wenliang, morto per coronavirus il 6 febbraio. Il medico aveva cercato di mettere in guardia i suoi colleghi dal rischio di una nuova malattia particolarmente aggressiva ed era stato convocato dalla polizia e accusato di diffondere informazioni false e allarmistiche, che aveva dovuto pubblicamente smentire. L’Oms, informata dalla Cina, ha confermato per la prima volta la presenza nel paese di 44 casi di polmonite a eziologia sconosciuta il 5 gennaio. Due giorni dopo Pechino ha annunciato di aver identificato su alcuni pazienti di Wuhan, che lavoravano tutti al mercato del pesce locale, un nuovo virus, ipotizzandone la trasmissione dagli animali all’uomo, in particolare dal pipistrello all’uomo. Il mercato, dove si vendevano anche animali selvatici e che si trova non lontano dal famigerato Lab 4, venne chiuso immediatamente.  Così come il laboratorio di Shangai che l’11 gennaio aveva osato divulgare di propria iniziativa ad altri centri di ricerca stranieri il genoma del nuovo agente patogeno, il cui nome scientifico è Sars-CoV-2, responsabile dell’infezione Covid 19 (la denominazione della malattia risale all’11 febbraio), appartenente alla famiglia dei Coronavirus, la stessa del virus  Sars Cov, identificato nel 2002 con il quale ha in comune il 70 % della sua sequenza genetica e del Mers, identificato nel 2012. Il 20 gennaio in Cina si registrano i primi tre morti ufficiali mentre i contagi salgono a 200.  Scatta l’allerta in tutto il mondo. E il 23 gennaio Pechino, con una mossa che non ha precedenti, annuncia la chiusura dei confini dell’Hubei e la quarantena per tutti i suoi abitanti, con il plauso dell’Oms. Il 29 gennaio i primi due casi di Covid 19 sono segnalati a Roma. Si tratta di due turisti cinesi, che vengono ricoverati allo Spallanzani, insieme a un gruppo di connazionali messi in isolamento. Il giorno successivo viene proclamata l’emergenza internazionale. Il 21 febbraio l’Italia registra nella provincia di Lodi il suo paziente “numero uno”  per poi, l’8 marzo successivo, proclamare per decreto del governo il lockdown su tutto il territorio nazionale, seguendo le direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità e l’esempio della Cina.

Incidente o arma letale?

Ma cosa è successo davvero a Wuhan? Il lab 4 è coinvolto o no nell’esplosione della terribile pandemia di Covid 19? Sono fondati i sospetti del presidente statunitense Donald Trump e del presidente francese Immanuel Macron sul possibile ruolo giocato nella pandemia dal centro di ricerche, in parte, tra l’altro, come si è visto, finanziato dai loro stessi rispettivi paesi? E perché Trump dichiara di voler uscire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e ne ha sospeso i finanziamenti?  Interrogativi sui quali non si può sorvolare, se non altro perché ad ispirarli sono i leader di due democrazie occidentali, autorevoli testate giornalistiche internazionali e persino ad un premio Nobel per la medicina del rango di Luc Montagnier, ex ricercatore dell’Istituto Pasteur,  scopritore insieme a Françoise Barré-Sinoussi e Robert Gallo del virus dell’Aids. E’ preoccupante che Montagnier sia stato messo alla gogna per aver sostenuto che a scatenare l’epidemia Covid 19 sarebbe stato un virus modificato artificialmente, probabilmente per realizzare un vaccino, e sfuggito per errore da qualche laboratorio, come si evincerebbe dall’analisi da lui condotta sul genoma. La sua tesi è stata ridicolizzata e smentita con forza dall’Oms, che suffragando la versione cinese, ha ribadito più volte e con forza che il virus ha origine naturale anche se non se ne conoscono con certezza tutti i passaggi dagli animali all’uomo e che le autorità di Pechino si sono comportate correttamente.  Una versione quella dell’Organizzazione mondiale della sanità respinta da Trump, che è pur sempre il presidente degli Stati Uniti, e che ha detto di aver visto con i suoi occhi le prove che inchioderebbero la Cina sul ruolo che ha avuto in questa tragica partita, per errore o di proposito, il lab 4 di Wuhan. Non solo in una lettera pubblicata su Twitter, Trump ha accusato l’Organizzazione mondiale della sanità di aver “sistematicamente ignorato notizie credibili sulla diffusione del virus a Wuhan a inizio dicembre 2019 o anche prima”, provenienti anche da Taiwan e di non aver “indagato in modo indipendente” su di esse “forse per motivi politici”. In poche parole di aver fatto il gioco di Pechino.

L’Oms sempre più agenzia privata

Ma per cercare di capire di più quello che sta avvenendo bisogna analizzare gli attuali equilibri politico- economici all’interno dell’Organizzazione mondiale della sanità, massimo organismo internazionale a tutela della salute mondiale, nato nel 1948 in un mondo che anelava dopo la tragedia della seconda guerra mondiale ad una maggiore solidarietà e al miglioramento delle condizioni dei popoli in ogni angolo della terra. Un’agenzia dai nobili natali e dai nobili obiettivi, cui fanno capo 194  paesi, tra i quali gli Stati Uniti, che ora vogliono ritirarsi,  ma che nel corso del tempo è andata cambiando pelle, aprendo anche a finanziatori privati e grandi associazioni a finalità umanitarie, che in molti casi fanno capo a veri e propri colossi in settori che spaziano dalle tecnologie all’industria farmaceutica. Finanziatori che fanno lobby e condizionano sicuramente le scelte dell’Organizzazione. Basti pensare che nel 2017 circa l’80% dei fondi dell’Oms era destinato a coprire specifici progetti indicati dagli stessi donatori.  L’attuale direttore è Tedros Adhanom Ghebreyesus, nato ad Asmara nel 1965, biologo, tra i massimi esperti di malaria nel mondo, ex membro del Fronte di Liberazione del Tigrè,  ministro della sanità nel governo dell’Etiopia dal 2005 al 2012 e ministro degli esteri dal 2012 al 2016, in carica dal luglio del 2017. Da più parti è accusato di aver cinesizzato l’Oms. E le sue parole di apprezzamento per Pechino, di cui ha lodato più volte “il nuovo modello per il controllo delle epidemie”, messo in campo per il Covid 19, sono diventate una prova per chi sostiene che Tedros agisce nell’interesse politico del suo paese. Ed è un dato oggettivo che l’Etiopia è il paese africano nel quale la Cina sta investendo più che in ogni altro.

Bill Gates, il filantropo della sanità mondiale 

Utile è anche dare uno sguardo alla classifica dei maggiori contribuenti dell’Oms. Stati Uniti a parte, il cui impegno economico rappresenta il 15% del bilancio complessivo dell’Organizzazione, al  secondo posto troviamo un ente privato, la cui presenza nell’elenco dei donors dell’agenzia chiarisce molti punti ombra nello scenario delineato dal Covid 19: la Fondazione Bill e Melinda Gates, con 531 milioni di dollari di donazioni non solo occupa il secondo posto di questa classifica, ma copre da sola quasi il 10% delle necessità finanziarie dell’organizzazione. Il multimiliardario americano, fondatore di Microsoft, torna in lista anche attraverso altri enti a lui riconducibili, come la Gavi Alliance, partnership di soggetti pubblici e privati alla quale partecipa pure l’Italia dal 2006, da lui creata con lo scopo di migliorare l’accesso all’immunizzazione per la popolazione umana in paesi poveri, che è quarta  nella classifica dei principali finanziatori subito dopo il Regno Unito. Gates è stato inoltre il primo privato ammesso a partecipare all’Assemblea generale dei paesi membri, ed è senz’altro il donatore non statale più influente nell’Organizzazione Mondiale della Sanità oltre ad essere anche tra i protagonisti più potenti nella salute globale. Cosa che solleva non pochi dubbi e addensa ombre sulla sua figura e sulla stessa agenzia mondiale. Secondo alcuni, il denaro della Fondazione Gates, che ha come origine gli investimenti di grandi imprese, potrebbe  fare gli interessi delle aziende stesse, infragilendo e minando l’immagine dell’Oms, la sua autorevolezza e il suo ruolo super partes, nel definire gli standard e le politiche sanitarie. Sono risuonate inquietanti inoltre, nel momento difficile che abbiamo attraversato, alcune affermazioni  di Gates, ritirate fuori, come questa estrapolata da un discorso che il miliardario di Seattle tenne 2010: ”Il mondo ha oggi 6,8 miliardi di abitanti. Ci dirigiamo verso i 9 miliardi. Se facciamo un buon lavoro con i vaccini, la sanità, la salute riproduttiva, possiamo diminuirlo forse del 10-15%…”. O come  la sua famosa profezia del 2015, riportata spesso dai media in questi giorni: “Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nelle prossime decadi, è più probabile che sia un virus altamente contagioso invece di una guerra. Non missili ma microbi”.

La corsa al vaccino

Bill Gates è un po’ ovunque.  E rispunta, sempre in versione filantropica, ai nastri di partenza in più di uno scenario figlio del coronavirus. La  Microsoft, core business di tutte le sue attività,  sta traendo vantaggio dall’impulso che ai titoli tecnologici ha contribuito a dare la comunicazione in questi tempi di distanziamento sociale. Tempi che hanno visto anche fiorire anche una sotto-branca molto importante, che finora sembrava essere rimasta sotto traccia, quella dell’e-learning. Settore nel quale la Fondazione del magnate americano non si è fatta trovare impreparata.  Ai primi di maggio, non senza sollevare polemiche, il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, ha ufficialmente incaricato i Gates di “ridisegnare”, (la parola che ha usato) l’istruzione statale mettendo al centro la tecnologia. Ma questo è, per ora, ancora marginale nei grandi giochi di strategia mondiale per il dopo Covid, concentrati sulla salute.

E su questo fronte  l’uomo più ricco del mondo lo ritroviamo in prima  linea nell’alleanza internazionale lanciata insieme dall’ Onu e dall’ Oms lo scorso aprile per accelerare lo sviluppo, la produzione e la distribuzione del vaccino che salverà il mondo. Un’alleanza in cui c’è anche l’Italia, che ha annunciato un contributo di 140,5 milioni di euro, dei quali 120 dovrebbero andare, spalmanti in cinque anni, a Gavi Alliance, l’associazione no profit creata dalla fondazione Gates per diffondere gratuitamente vaccini e cure nei paesi del terzo mondo e che, come si è visto, è il quarto donors dell’Oms.  Dieci milioni di euro sono stati già stanziati dall’Italia come contributo all’Organizzazione mondiale della sanità e altri dieci milioni andranno al centro di ricerche per le nuove infezioni batteriologiche Cevi, di proprietà del colosso americano AccessBio (quartier generale in Somerset NJ, industria specializzata in test diagnostici in vitro con impianti produttivi negli  Stati Uniti, dal 2013 in Corea del Sud, e dal 2020 in Etiopia), centro che si è specializzato nella produzione di tamponi per il coronavirus e che già collabora, dalla sua sede americana, con il governo di Washington per la produzione di test sierologici e che in Africa vende test diagnosti per la malaria (test che dal 2010 secondo le indicazioni dell’Oms vanno eseguiti prima di sottoporre il paziente a trattamento: negli ultimi tre anni ne sono stati utilizzati 300 milioni). Ad AccessBio dal 2016 partecipa il Fondo Ghif ( Global Health Investment), un fondo di investimento privato strutturato dalla Jp Morgan e, anche qui, dalla Fondazione Bill e Melinda Gates. Sempre dall’Italia un milione di euro andrà al Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria (anch’esso creato e voluto dalla Fondazione Gates e di cui è stato presidente prima di andare a dirigere l’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus) che ha creato recentemente al suo interno una sezione speciale  per il Covid-19.

Alla grande alleanza per il vaccino lanciata da Onu e Oms, partecipa la Commissione Europea con 1 miliardo di euro. E a ruota hanno annunciato finanziamenti Francia (500 mln) Germania (525 mln), Spagna, Arabia Saudita, Norvegia, Regno Unito, Canada, Giappone, Consiglio d’Europa. Sono fuori dall’ombrello  Russia, Cina e Stati Uniti.

Insomma coordinate dall’Oms, le grandi piattaforme antiepidemiche mondiali (Cepi, Gavi, The Global Fund, Unitaid), i giganti della beneficenza (Fondazione Bill and Melinda Gates, Wellcome Trust), e la Banca Mondiale, insieme al settore farmaceutico privato, sotto la sorveglianza di una lunga cordata di capi di Stato e di governo, lavoreranno per dare al mondo il rimedio contro il coronavirus. Ma oltre ai grandi schieramenti, c’è anche chi è all’opera per proprio conto. Sono otto i vaccini che avrebbero superato la parte della sperimentazione animale e per i quali è cominciata la sperimentazione umana. Fra questi a buon punto è il quello dell’Astrazeneca, al quale stanno lavorando i laboratori Jenner dell’Università di Oxford in collaborazione con l’Irbm di Pomezia, ma sul quale il governo britannico ha imposto una prelazione di 30 milioni di dosi. Intanto negli Stati Uniti è già alla Fase due (verifica della tollerabilità) il vaccino di Moderna azienda che ha tra i suoi partner la Fondazione Bill Gates.

La soluzione più conveniente

Ma come sarà il vaccino verso il quale ci si sta orientando? L’Oms sembra aver già messo le mani avanti e in uno degli ultimi documenti pubblicati ha ricordato che non ci sono ancora prove scientifiche che chi è guarito dal Covid 19 abbia gli anticorpi in grado di proteggerlo da una seconda infezione. Lo stesso ha fatto il virologo americano Anthony Fauci, che ha preannunciato “tempi difficili”, con ondate periodiche di epidemia, come accade per l’influenza. Sembra, dunque, che ci sia poco da farsi illusioni: se si arriverà a un vaccino, sarà stagionale e non sarà certo in grado, come quello del vaiolo, di eliminare definitivamente la malattia.  Mutevolezza del virus la causa, che ben si sposa, in questo caso, con gli interessi economici. Il mercato globale dei vaccini nel 2018 ha raggiunto un valore di 37, 4 miliardi di euro e secondo le stime di Fortune Business Insights, realizzate prima dell’esplosione dell’epidemia, potrebbe arrivare a 83,6 miliardi entro il 2026, con un tasso medio composto di crescita nel periodo (Cagr) del 10,7% l’anno. E’, come si vede, solo una piccola fetta del grande business farmaceutico che è di 1.300 miliardi di dollari. Una fetta che va alimentata. Il Covid contribuirà a dare ulteriore ossigeno al settore? Per saperlo bisognerà tenere d’occhio le performance in borsa delle cinque principali multinazionali che ne controllano l’80% delle vendite nel mondo: GlaxoSmithKline (Regno Unito, 34,2 miliardi di fatturato globale nel 2018), Merck (Usa, 36,83 miliardi di euro il fatturato 2018), Sanofi (Francia, 34,46 miliardi di fatturato nel 2018), Pfizer (Usa, 46,72 miliardi di fatturato nel 2018) e Gilead Sciences (Usa, 19,3 miliardi i ricavi 2018).

Le alternative

Ma ci sono altre strade da percorrere? Esistono farmaci efficaci per la cura del Covid? Se ne stanno mettendo a punto di nuovi. Nessuno di quelli sperimentati finora si è rivelato davvero risolutivo. Ma ne sono stati utilizzati diversi nell’ambito del nostro piano nazionale di gestione dell’emergenza. Tra cui il Lopinavir / Ritonavir (Kaletra) che aveva dato buoni esiti su Sars e Mers, il Remdesivir, usato contro Ebola in Africa e gli antimalarici Clorochina e Idrossiclorochina. In particolare quest’ultimo farmaco utilizzato nella prevenzione del Coronavirus dal presidente Trump in persona, che ha annunciato pubblicamente di averne da poco concluso un ciclo di due settimane, del tutto a sorpresa il 26 maggio è stato ufficialmente sospeso dalla sperimentazione anti Covid. Una decisione, annunciata dallo stesso direttore dell’Oms, che ha parlato di effetti collaterali altamente dannosi che il farmaco, secondo un recente studio pubblicato da Lancet, potrebbe provocare. Ma resta il medicinale che continua ad essere il più utilizzato nell’ambito delle sperimentazioni cliniche per il trattamento della malattia è il Tocilizumab. Sono in corso di valutazione l’efficacia e la sicurezza di Emapalumab, e Anakinra. Gli anticorpi prelevati dal sangue dei pazienti guariti, resta un’opzione terapeutica attualmente in fase di studio.

Non solo Trump anche il Madagascar fuori dall’Oms

Sorprende infine che non sia finita nell’agenda setting internazionale dell’emergenza Covid, la presa di posizione del presidente del Madagascar Andry Rajoelina, che ha annunciato clamorosamente, intervistato da France 24 e da Rfi, di voler lasciare l’Oms, il cui obiettivo, ha spiegato, è quello di mantenere l’Africa sotto scacco. Rajoelina, che ha fatto appello alle nazioni del suo continente, a seguirlo in questa mossa, sostiene anche che il suo paese sta combattendo il Covid con una medicina, che è estratta dall’artemisia (che è efficace contro la malaria) e da altre erbe che crescono in Madagascar, in grado di guarire in dieci giorni i malati contagiati dal coronavirus, ma di cui l’ Occidente e l’ Organizzazione mondiale della sanità non vogliono sapere. “E’ un farmaco – ha dichiarato il presidente – curativo e preventivo, grazie al quale il Madagascar non ha registrato finora alcun morto. “E’ forse un prodotto non ok – ha aggiunto con amara ironia Rajoelina – perché realizzato da una nazione che è la 63esima più povera del mondo… ma che vorrebbe comunque salvare il mondo?”

(Velia Iacovino giornalista e scrittrice, Presidente del Franco Cuomo International Award, già condirettore di AdnKronos, esperta di politica estera è Senior columnist di Associated Medias)