Leader mondiale nella spesa pubblica, nel 2021 la Francia era tra i Paesi più indebitati e meno produttivi della zona euro. Un’infernale dialettica politica e sociale blocca da decenni le riforme del lavoro e delle pensioni
Sisifo fu condannato per l’eternità a riportare un masso sulla cima della montagna. Ma non dovette affrontare la riforma delle pensioni in Francia. Il problema è vecchio quanto la Quinta Repubblica. Dall’epoca di Chirac in poi è sempre stato sul tavolo dell’Eliseo senza che una soluzione organica venisse prospettata. In verità alcuni disegni di legge hanno fatto il loro bel percorso in Assemblea, ma si è sempre trattato di piccoli correttivi all’impianto complessivo, senza che fossero modificati i criteri di fondo: innalzamento dell’età pensionabile e armonizzazione di una quarantina di regimi diversi a seconda di categorie di lavoratori del pubblico e del privato. L’ultimo a provare a sollevare il macigno è stato Emmanuel Macron, durante il primo quinquennato, ma il progetto di riforma, peraltro non rivoluzionario, si è arenato dopo la rivolta dei gilet gialli. Lo ha rilanciato in campagna elettorale, ma visti i sondaggi che davano in crescita l’estrema destra e l’estrema sinistra – ferocemente contrarie all’innalzamento dell’età pensionabile – ha fatto retromarcia. L’ultima battuta, dopo la vittoria elettorale, è l’idea di un referendum. Ma occorre ricordare che Jean-Paul Delevoye, il responsabile del progetto di riforma, aveva già chiarito che il nuovo sistema non avrebbe ridotto la spesa pensionistica, circa il 14% del Pil.
I francesi per ora continueranno ad andare in pensione tre o quattro o cinque anni prima degli altri cittadini dell’OCSE. Ed essendo una nazione benestante in media e longeva, potrebbero passare circa un quarto di secolo in poltrona. La punta dell’iceberg sono i ferrovieri, protagonisti di giganteschi scioperi, a volte oggetto di caricature, ma risoluti a difendere il loro status. Per alcuni, la pensione può arrivare a 52 anni e questo non è considerato un privilegio, bensì un diritto speciale, come l’indennità carbone nell’epoca del TGV.
Il nodo della riforma delle pensioni
La riforma delle pensioni, e le lotte sociali per bloccarla, sono l’esempio illuminante, la parte per il tutto, della infernale dialettica politica e sociale che blocca la Francia. L’analisi potrebbe estendersi al mercato del lavoro, all’assistenza pubblica, alla sanità, alla rete amministrativa, al rapporto fra realtà locali e capitale, più in generale alla forma stessa dello Stato francese, così come si è formato in epoca napoleonica e si è strutturato dal dopoguerra nella concezione del generale de Gaulle. Uno stato centralizzato, che dispensa servizi di buon livello, che protegge dalla culla alla tomba, in cui si sono conciliate per decenni la cultura della destra sociale e la cultura della sinistra marxista e socialdemocratica. Il tutto avvolto nel mito egualitario della Rivoluzione e garantito da una spesa pubblica fuori controllo. Ma anche uno Stato con qualche sacca d’inefficienza, lento, impossibilitato a garantire tutti, perchè tagli di spesa e tentativi di razionalizzazione si sono imposti anche in Francia. Il risultato è paradossale: da un lato i francesi difendono con le unghie lo Stato protettore, dall’altro se ne lamentano perché in effetti non arriva dappertutto. In molti villaggi delle periferie, dove sono arrivate le pale eoliche e il TGV, sono spariti il medico condotto, l’ufficio postale, la scuola elementare. L’altro paradosso francese è il confronto fra pubblico e privato, laddove il privato tiene il Paese al passo con la competitività internazionale senza venire meno a criteri di tutela sindacale e diritti, salvo l’estendersi del precariato a fasce di giovani e di immigrati di ultima generazione.
“Voglio una Francia che creda nelle sue possibilità, nei suoi rischi, nelle sue speranze. Voglio una Francia giusta, efficiente, intraprendente, dove ognuno sceglie la propria vita e vive del proprio lavoro. È la rivoluzione democratica che dobbiamo riuscire a fare, per conciliare libertà e progresso”, aveva detto Emmanuel Macron all’inizio della sua ascesa. Concetti che ha declinato in varie fasi del suo governo e che ha rilanciato nel programma del prossimo. Le ambizioni si sono scontrate con la rivolta dei gilet gialli e l’emergenza pandemica. La priorità del presidente non è stata più di “ricostruire la Francia”, ma di vaccinarla; non è stata più di “liberare il lavoro e l’imprenditorialità”, ma di costringere le imprese a telelavorare. La crisi dei gilet gialli aveva già rallentato lo slancio riformista che aveva segnato l’inizio del quinquennio, con l’abolizione dell’ISF e della tassa sugli alloggi, la riduzione della tassazione delle imprese, la revisione del codice del lavoro o la riforma delle Ferrovie. I 17 miliardi di euro di misure annunciate nell’aprile 2019 per calmare la rabbia sociale avevano seppellito la promessa di rimettere in sesto le finanze pubbliche e l’eliminazione di 120.000 posizioni di dipendenti pubblici. Macron è diventato “ultra-keynesiano”, “statalista”, “grande protettore”.
Il dibattito interno
La mole di denaro investita, il ricorso al debito e lo scatto della ripresa post pandemia hanno offerto una formidabile arma al Presidente: crescita forte (6,5% nel 2021), disoccupazione al livello più basso da più di dieci anni, un tasso di occupazione record, una povertà contenuta nonostante la crisi. Fra il 2019 e il 2021, il debito pubblico è però aumentato di 17,1 punti. La pandemia ha fatto della Francia il leader mondiale della spesa pubblica (60,1% del Pilnel 2021, contro il 52,3% della Germania e il 44,2% degli Stati Uniti). La Francia è l’unico paese al mondo ad applicare la settimana lavorativa di 35 ore, la Corte dei Conti continua a deplorare lo spreco di denaro, nuove norme e regolamenti amministrativi si accumulano in modo kafkiano. Il debito pubblico è passato dal 20% del Pil nel 1980 al 60% nel 2000 per toccare il 112, 9 nel 2021, pari a 2813 miliardi di euro sulle teste dei francesi, collocando la Francia fra i Paesi più indebitati e meno produttivi della zona euro.
Se avesse vinto Marine Le Pen, le falle nelle casse dello Stato sarebbero diventate voragini. In sintesi, la leader dell’estrema destra proponeva di “proteggere” i francesi con misure per aumentare il potere d’acquisto (abbassamento dell’Iva su energia e carburante e abolizione su beni di prima necessità, pensione a 60 anni). Si trattava di misure che sollevano anche forti dubbi di costituzionalità e che a conti fatti non avrebbero favorito i più poveri, come ha notato l’Istituto Montaigne. È il caso dell’abolizione dell’Iva su un paniere di cento prodotti alimentari e d’igiene, molti dei quali hanno già un’aliquota ridotta del 5,5%.
Allontanato il pericolo Le Pen, il campo della conflittualità sociale è rimasto aperto. E i quasi otto milioni di francesi che hanno votato per il candidato dell’estrema sinistra, Jean Luc Mélenchon, ci dicono quanti ostacoli si frappongano alle riforme. Tanto più che il futuro governo di Emmanuel Macron è appeso al risultato delle elezioni legislative di giugno.
Ma siamo sicuri che il freno alle riforme è tutto nelle mani di sindacati oltranzisti, giovani rissosi, gilet gialli inferociti, politici estremisti e capipopolo visionari? Domanda retorica. Lo Stato francese, per quanto centralizzato ed elitario, appartiene a un’estesa classe di piccoli e grandi funzionari che lo gestiscono, ne fruiscono e talvolta lo esaltano. In vent’anni, i testi di legge sono aumentati del settanta%. La percentuale di impiegati in funzioni amministrative è del 34%, in Germania del 24. Nonostante un’estesa informatizzazione della macchina amministrativa, il taglio di almeno centomila funzionari, proposto dai tempi di Sarkozy, è ancora una chimera.
Infine occorre dire che, al di là dei buoni propositi, le priorità del Presidente rieletto sono al momento altre: guerra in Ucraina, sicurezza interna, immigrazione, transizione ecologica. Priorità che presuppongono ulteriori capitoli di spesa. Priorità che rafforzano collaudati meccanismi decisionali, secondo i quali la cabina di regia dell’Eliseo analizza, consulta, sceglie che cosa è bene per il popolo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu
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