Guerra Afghanistan: bilancio fallimentare, paese in mano al narcotraffico e al terrorismo islamico

La fuga da Kabul sancisce la sconfitta di americani e occidente interno e ribadisce che il futuro del pianeta passa attraverso modelli di sviluppo sostenibili basati di più su cultura e formazione che su ingerenze militari

di Guido Talarico

Un’analisi del ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan non può prescindere da uno sguardo a chi di guerre nella contemporaneità ne ha fatte forse più di tutti. Nel suo discorso all’Onu del 1961 John Fitzgerald Kennedy aveva lanciato un monito chiaro “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Questo è certamente uno dei lati dominanti del pensiero americano, quello democratico, tendenzialmente pacifista, che derivava dalla suggestione postbellica lasciata da Albert Einstain quando diceva: “non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre”. Poi però c’è il pensiero americano più conservatore, più radicale e forse alla fine prevalente, quello del “dottor Stranamore” di kubrickiana memoria, per intenderci. Quello che il Generale George Patton esplicitò con una sua paradigmatica definizione: “lo scopo della guerra non è morire per il proprio paese, ma far sì che l’altro bastardo muoia per il suo”.

Nell’invasione americana dell’Afghanistan c’è stato tutto questo. La fame di vendetta conseguente agli attacchi terroristici dell’11 Settembre (come in qualche modo avvenne dopo Pearl Harbour), il desiderio di “esportare la democrazia” (come avvenne in Iraq o in Libia), l’obiettivo di creare un avamposto a stelle e strisce vicino a possedimenti cinesi (come avvenne in Vietnam e in Corea) o russi (come avvenne in Turchia). Come insegna la storia però ad un certo punto gli americani mollano la presa e abbandonano il campo. Tolta la grande guerra, dove la missione fu effettivamente centrata, nei fatti gli Usa ovunque siano andati di recente più che restaurare diritti hanno tentato di ridefinire confini e poteri a proprio beneficio, senza però quasi mai riuscirvi. Ad un tratto poi, come dicevamo, per un motivo o per un altro vanno via. E non sempre nel migliore dei modi. Anzi lasciando disastri.

La stampa internazionale ha immediatamente paragonato la fuga occidentale da Kabul a quella da Saigon. Stessa follia, stesso dramma. Come se la storia non avesse insegnato nulla. Così come quei puntini che volavano giù dagli aerei in partenza dall’Afghanistan, simbolo della disperazione più estrema di chi preferisce il suicidio al proprio assassinio, hanno subito riportato alla memoria la tragedia delle persone che precipitavano dalle Torri Gemelle in fiamme. Il che è in qualche modo inevitabile. Le guerre, le invasioni, l’uso della forza in generale rappresentano il fallimento del linguaggio, della ragione. Ovunque siano combattute. L’epilogo di ogni conflitto lascia sempre per terra i morti, gli unici che hanno veramente visto la fine delle ostilità, e nei vivi la consapevolezza caduca che la guerra è sempre la soluzione più povera, il fallimento di qualsiasi buona intenzione.

La perdita di controllo di Kabul, gli enormi aerei C- 17 con dentro fino a 800 persone presi d’assalto, gli elicotteri Apache che sorvolavano la pista a bassa quota nel tentativo di allontanare la folla, le migliaia di persone abbandonate al proprio destino, soprattutto le donne, dopo decenni di vane promesse, resteranno nei libri di storia come l’ennesima pagina oscura della politica estera americana e dell’occidente tutto. Questa occupazione militare di un paese straniero cominciato da George W. Bush, proseguito da Barak Obama e terminato malissimo da Donald Trump e dallo stesso Joe Biden dimostrano il fallimento di una visione militaristica della difesa degli interessi geopolitici di una nazione. Quale che essa sia: Usa, Cina, Russia o anche Europa. E non è una questione ideologica. E’ semplicemente una questione di potenza. Le armi non bastano a cambiare un paese. Lo puoi invadere, ma non lo cambi con il semplice presidio militare. Per migliorare il mondo, per esportare veramente la democrazia, per sconfiggere il terrorismo occorre lavorare sulle coscienze e sulla conoscenza, sullo sviluppo economico, sul benessere fisico e morale delle popolazioni. La cultura necessità di coraggio e di tempo, ma è certamente più potente ed efficace delle armi.

La lezione afghana è questa. Sono bastate poche settimane di attività neppure militari ma di logoramento da parte dei Talebani per consentire loro una ripresa del potere e per vanificare vent’anni di spese e di addestramenti militari. In pochi giorni sono stati mandati in fumo tremila miliardi e reso inutile il sacrificio di tanta gente. Un bilancio assolutamente fallimentare.

Biden ha provato a difendere il ritiro annunciato da Obama e avviato da Trump accusando gli afghani di non aver combattuto: “Non intendo ripetere gli errori del passato, non esiste un buon momento per lasciare”. Il momento buono forse è difficile da trovare, ma di certo il come andava programmato e gestito meglio. Tuttavia è un errore concentrarsi troppo sulla fuga di stampo vietnamita con la quale tutti i paesi della Nato hanno dovuto e devono ancora misurarsi. I danni veri sono ben altri: i costi umani e sociali che dovranno patire quanti avevano creduto alle promesse americane e della Nato e ora si trovano in balia dei più integralisti tra i mussulmani. Penso alla questione femminile o a quella della formazione, della cultura, al ritorno della legge coranica, alla ripresa delle trame terroristiche internazionali, ai milioni di profughi già in viaggio verso l’Europa. Penso al sempre verde tema dell’oppio.

Ecco quest’ultimo è un tema centrale che pure non ha trovato l’attenzione mediatica che merita. Il 90 % dell’eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Anche la produzione delle meno tradizionali hashish e marijuana sono in crescita. Secondo un’analisi dell’Onu il 2017 è stato l’anno del picco, con la produzione di oppio che ha raggiunto un valore di 1,4 miliardi di dollari, mentre l’economia illegale del paese ha raggiunto un totale di 6,6 miliardi di dollari. Quasi superfluo ricordare che i principali consumatori di eroina sono in Europa e Stati Uniti. Insomma, Kabul non è soltanto la capitale dell’islamismo più estremo ma è anche la capitale del narcotraffico internazionale.

E questo complica non di poco la situazione. La conferenza stampa apparentemente moderata tenuta dai rappresentanti talebani appena arrivati nella capitale non deve trarre in inganno. Più che aperture vere e proprie, la “sharia” – hanno subito chiarito – rimane sovrana, è sembrato assistere alla recita di un copione preparato per tranquillizzare il paese, i mercati (le borse infatti sono salite) e le cancellerie internazionali. Un modo per rendere più facile la ripresa della gestione di un paese governato, non dimentichiamolo, da clan di etnie diverse spesso in lotta tra loro. Le timide aperture nei confronti delle donne e dei giornalisti sono apparse a molti osservatori, noi compresi, come uscite di pura facciata. Segni di aperture destinati a tranquillizzare in questa prima fase gli animi di un popolo vessato da decenni di soprusi e di violenze e a dare al mondo un messaggio di pacificazione che renda la percezione del loro ritorno al potere meno traumatico.

La verità è che questa volta i talebani hanno vinto la loro guerra proprio nel territorio in cui gli americani sono intrinsecamente più forti, vale a dire l’economia. In questi 20 anni di invasione si stima che i talebani trafficando oppio ed eroina abbiano messo nelle loro casse 120miliardi di dollari, gli americani invece ne hanno speso (e buttato) 80miliardi. Il tutto senza risolvere granché. Il conto economico in altre parole è tutto a loro favore. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle l’invasione dell’Afghanistan risultò inevitabile. La patria del terrorismo islamico non poteva non pagare un prezzo per quel terribile attacco. Da quel punto in poi però, come il ritiro di questi giorni dimostra, le scelte si sono rivelate del tutto errate.

Occorreva debellare l’industria del narcotraffico, investire in formazione e cultura, favorire la crescita di una nuova classe dirigente, creare sviluppo che avrebbe portato ad una svolta democratica e quindi alla pace. Gli americani non lo hanno fatto, e noi europei come sempre ci siamo accodati, senza capire che un presidio militare da solo non poteva bastare. Ce ne siamo andati di corsa quando anche la nostra economia ha detto che così era inutile restare laggiù. Ed ora si ricomincia. Avremo ondate di afghani che arriveranno a piedi ai nostri confini, avremo un’ulteriore crescita del narcotraffico, avremo un terrorismo islamico più ricco, più libero e desideroso di rivincite.

Occorrerà meditare profondamente su tutto questo. Occorrerà apprendere una volta per tutte la lezione. Il mondo del nuovo millennio, sempre più digitale e globalizzato, ha bisogno di nuovi equilibri che si basino di meno sulle guerre, sui predomini militari, sulle aggressioni e di più sullo sviluppo sostenibile, sui cambiamenti culturali. L’uso della forza è in alcuni casi imprescindibile. La difesa estrema della libertà, della democrazia può giustificare interventi armati. Ma devono essere casi estremi. Gli equilibri geopolitici, gli interessi economici devono essere perseguiti con altri mezzi. Questa ennesima fuga da Kabul spinge tutti, occidente intero ma anche Cina e Russia, a dover ripensare il futuro. Le parole di Kennedy di 60 anni sulla pericolosità delle guerre erano state già dette inutilmente da Platone. Forse ora è venuto il tempo di cominciare a cercare alternative all’approccio bellico allo sviluppo che ha fin qui dominato il mondo.

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