Libia: Riconquistata Tripoli vittoria di al-Sarraj e Turchia, ma partita tutta da giocare

Velia Iacovinodi Velia Iacovino

La riconquista di Tripoli non è solo una vittoria del premier Fayez al-Sarraj ma è anche e soprattutto una evidente affermazione della Turchia sullo scacchiere internazionale. Ankara, infatti, sostenendo il Governo di Accordo Nazionale libico contro le milizie del generale ribelle Khalifa Bilkasim Haftar, è riuscita a raggiungere il duplice obiettivo di mettere la sua bandierina sullo stato nordafricano e, in virtù del memorandum siglato il 27 novembre scorso proprio con al-Sarraj, di ampliare la sua presenza nel Mediterraneo attraverso la creazione della Zona economica esclusiva con la Libia, una sorta di corridoio marittimo che dall’Anatolia si estende fino alla Cirenaica. Un’iniziativa, che le assicurerebbe il diritto di gestione delle risorse naturali di quelle acque, i cui fondali sono ricchi di gas naturale, ma che rischia di aprire nuovi incandescenti scenari. Non più tardi dello scorso gennaio Atene, Nicosia e Tel Aviv hanno firmato  un accordo per la realizzazione del gasdotto EastMed, infrastruttura di trasporto gas ai paesi europei, con l’Italia nell’ipotetico ruolo di terminal naturale, progetto che ora, dopo gli sviluppi che ci sono stati a Tripoli, potrebbe incontrare forti ostacoli.

Alta la posta in gioco per tutti i player

Il generale Haftar è alle corde, e le forze governative si stanno riappropriando di ogni angolo del paese, ma la partita per la Libia non si può comunque considerare conclusa. Sono troppi gli interessi in gioco, e troppi i player impegnati nell’intricato wargame, che ormai, in un susseguirsi di differenti scenari, dura da ben nove anni, ossia dalla caduta e morte del colonnello Muhammar Gheddafi. Insomma, non c’è da farsi troppe illusioni. Il momento è delicato, perché la posta in gioco è molto alta per ciascuno dei protagonisti. E mentre città e qabile, che avevano dichiarato fedeltà ad Haftar stanno passando dalla parte del governo, Egitto, Arabia Saudita, Emirati e Russia, quest’ultima indirettamente presente sul territorio con i mercenari del gruppo Wagner, continuano a combattere per evitare la dissoluzione dell’alleanza con Haftar  e al tempo stesso per rallentare l’avanzata dell’esercito regolare, moltiplicando gli appelli al cessate il fuoco e le proposte di accordo  diplomatico per prendere tempo e mettere in piedi un piano B, alternativo allo smacco militare subito dal loro protetto. Ma la sconfitta di Haftar rischia di scompaginare la coalizione internazionale che lo sponsorizza. E i primi segnali ci sono.

La Russia e il figlio di Gheddafi

La Russia è già a lavoro per proprio conto sul dossier libico, anche alla luce delle delicate relazioni che intrattiene con la Turchia. Ed è significativo a questo riguardo che mentre al-Sarraj il 4 giugno festeggiava ad Ankara il ritiro delle milizie di Haftar da Tripoli, il suo vice Ahmed Maiteeg, fosse volato a Mosca, dopo aver rassicurato comunque gli americani, preoccupati sia per l’ingerenza di Ankara che per le prossime mosse del Cremlino, ma distratti in questo momento da altre importanti questioni e priorità, Covid, proteste, crisi economica, elezioni. La Russia non vuole abbandonare la gara, e non lo farà. Ma è decisa a trovare un interlocutore nuovo e più credibile di Haftar. E il nome al quale da tempo starebbe pensando è quello di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del colonnello Gheddafi, impegnato a collaborare da oltre un anno, secondo fonti ben informate, con il ministero degli Esteri russo alla stesura del progetto per la ricostruzione della Libia. Un nome difficile certo, ma che a Tripoli continua ad avere seguito e che gli alleati arabi di Mosca sembrerebbero disposti a sostenere. La speranza della Russia, in questo quadro, è anche quella di vedere aumentare le crepe in seno all’Unione Europea sulla questione Libia e diminuire l’interesse americano verso questa area del mondo, così da poter ridefinire il proprio ruolo in Nordafrica e nel Mediterraneo e tentare di rilanciare scendendo a patti anche con Ankara. Un’ipotesi, che non è affatto da escludere, e che in questo momento preoccupa non poco la Francia.

Il doppio gioco di Parigi

“Il peggiore scenario possibile sarebbe proprio la nascita di un asse turco-russo che ponesse condizioni”, ha commentato parlando con il quotidiano turco Daily Sabah un alto funzionario francese, che è voluto rimanere anonimo. Questa è per il momento la posizione di Parigi, la cui politica nei confronti della Libia è stata all’insegna in questi anni della più assoluta ambiguità. Se da un lato infatti la Francia ha sempre ufficialmente dichiarato di sostenere il governo di al-Sarraj, voluto dalle Nazioni Unite nel 2015, dopo l’accordo di pace di Skhirat, dall’altra si è data da fare al fianco della coalizione che appoggia Haftar. Una strategia che rischia di risolversi in un fiasco dal punto di vista diplomatico. Parigi, che ha abusato anche della Ue e bloccato i piani della Nato, difficilmente riuscirà a salvare la faccia nei colloqui internazionali, se ci saranno, sponsorizzati dalle Nazioni Unite.

Le coalizioni mediorientali

Quanto ai player mediorientali coinvolti nella partita libica, i fronti sono due: da una parte c’è la coalizione, costituita da Arabia Saudita, Emirati, Egitto, che con la Russia ha sostenuto Haftar. E dall’altra il Qatar, che con la Turchia si è schierato con al-Sarraj. Posizioni che sono lo specchio fedele anche di un’altra crisi da non sottovalutare, quella in atto ormai da tre anni nel Golfo. Una crisi voluta da Riad, che  il 5 giugno 2017, insieme ai suoi alleati, con una mossa del tutto a sorpresa ha imposto  il blocco totale,  politico, economico e diplomatico a Doha, pretestuosamente accusandola di finanziare il terrorismo islamico, attraverso la Fratellanza Musulmana. Un altro punto chiave quello dello scontro “religioso”, dietro il quale si cela la competizione sulla scena mondiale, che si è riproposto nel corso del tempo nel conflitto nordafricano.

Haftar e la guerra all’Isis

Nonostante i metodi aggressivi e le numerose violazioni delle norme internazionali di cui si è reso responsabile, Haftar è bene o male l’uomo che ha scongiurato fin dal 2014 l’avanzata islamista in Libia, chiedendo la dissoluzione del Congresso nazionale generale dominato da partiti troppo sharaitici. Non solo, proprio lui,  il generale ribelle, che si è autoproclamato maresciallo di Libia, il militare  che ha partecipato alla rivoluzione di Gheddafi, il soldato che si è fatta una lunga prigionia in Chad e poi che è stato accusato dal colonnello di tramare contro di lui, l’uomo che si è rifugiato negli Usa dove riuscito ad ottenere anche la cittadinanza americana, è stato decisivo nella lotta contro jihadisti di Ansar al Sharia, organizzazione legata ad al-Qaida, nata nel 2011 e diventata operativa dal giugno del 2012. E’ stato lui, membro della potentissima qabila al-Ferjani, legata a sette sufi e a gruppi salafiti, durante la seconda guerra civile libica del 2014 a strappare Derna e Sirte all’Isis e ai suoi scherani, e sbarargliarne le forze, con l’aiuto delle tribù locali.  Un merito che gli americani inizialmente gli hanno riconosciuto, sperando anche di poter, attraverso di lui, estendere la propria influenza nella regione. Un merito che gli alleati della coalizione araba porteranno sul piatto della bilancia dei negoziati, al contempo mettendo in guardia la comunità internazionale da al-Sarraj, dai suoi uomini e dai suoi pericolosi accordi con la Turchia.

Governo spaccato. Lo strapotere di Bashagha

Intanto non sono di poco conto le divisioni e le tensioni che si stanno delineando all’interno del Governo di Accordo Nazionale. Una pentola in ebollizione, a quanto riferiscono alcune fonti, sintomo di una spaccatura così profonda  da mettere in forse ogni rapida soluzione del conflitto. Tutto ruota intorno alla figura del ministro degli Interni Fathi Bashagha, il nuovo uomo forte dell’esecutivo , descritto come il prescelto della Turchia in Libia. Fonti di Tripoli hanno riferito ad Arab Weekly che in questi giorni al-Sarraj  è stato sottoposto a fortissime pressioni da parte di Bashagha, esponente di primo piano dei Fratelli Musulmani, che gli ha chiesto il ridimensionamento del ruolo del vicepremier Ahmed Maiteeq. Le stesse fonti hanno riferito che Sarraj ha dovuto cedere e che ha diffuso una circolare,  che congela di fatto a partire da giovedì 4 giugno  fino a nuova disposizione ogni atto amministrativo o finanziario di Maiteeq, nell’intento di preservare gli interessi del paese alla luce delle attuali circostanze. Una conferma della grave spaccatura in atto all’interno della leadership libica e un preoccupante segnale di instabilità che si inserisce in uno scenario magmatico e in continuo mutamento.

Italia ai margini

Quanto all’Italia, avendo abbandonato da tempo l’esercizio attivo della politica internazionale, sembra essersi ritagliata in questa partita un ruolo assolutamente marginale, nonostante i suoi forti interessi economici in Libia. Il governo ha optato per una strategia dell’equidistanza, culminata lo scorso gennaio nel fallito incontro organizzato dal premier Giuseppe Conte a Roma tra Haftar e al-Sarraj e prima ancora, il 12 novembre 2018, nella conferenza di Palermo, che avrebbe dovuto trasformare il nostro paese nel principale interlocutore internazionale in Europa per le “sfide del Mediterraneo”. Un flop, inevitabile nell’assenza di una visione strategica ad ampio raggio. Così oggi ci ritroviamo a sostenere le chiacchiere, mirate a guadagnare tempo, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi che invoca il cessate il fuoco, e a sminare l’aeroporto internazionale di Tripoli, riportando a casa i resti dei droni che abbiamo utilizzato per al Sarraj, nella speranza di tutelare i nostri interessi. Interessi che non sono da poco. Al di là della controversa  questione dei flussi migratori clandestini, sui quali sono stati siglati in passato accordi discutibili, va ricordato che l’interscambio commerciale tra i Italia e Libia vale 5.400 milioni (80% in meno di prima della caduta di Gheddafi) e che in Libia continuano ad essere presenti grandi imprese italiane, oltre all’Eni, che opera nel paese dal 1959, principale produttore internazionale di idrocarburi, attiva nell’esplorazione e produzione di gas nell’offshore di fronte alla città di Tripoli e nel deserto e che possiede in Libia 11 titoli minerari. Un volume di affari, che si è notevolmente ridotto in questi anni di guerra, ma che è un’eredità da salvaguardare.

(Velia Iacovino giornalista e scrittrice, Presidente del Franco Cuomo International Award, già condirettore di AdnKronos, esperta di politica estera è Senior columnist di Associated Medias)

 

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