L’integrazione in Italia: Il peso della diversità e la lotta per l”ugualità”

di Mehret Tewolde

Roma – Sono donna, sono mamma, sono over 50, sono riccia…sono etero, sono cristiana e sono, ed è l’unica cosa che conta veramente… Mehret. Il mio nome lascia trapelare le mie origini non proprio latine, potrei essere caucasica. Ahimè non sono nemmeno quello. Per i bianchi sono nera mentre per i neri sono a volte bianca e altre mulatta. A seconda di come porto i capelli, vengo collocata in diverse parti del mondo…Africa, Americhe e Asia. Ciò mi rende particolarmente felice perché io mi sento figlia del mondo e sono, insieme a milioni di altri come me, la testimonianza di quanto sia interessante  la mescolanza. A volte, è il connubio età-donna che crea quel non so che di disagio, imbarazzo (per gli altri) e discriminazione.

Questa miscela di elementi fa si che io sia spesso vista ed etichettata come “diversa”.  Ed io, come mi sento?  Semplice, non mi sento diversa…sono felicemente diversa. Non sono folle, sono diversa come ogni essere vivente su questa terra. E sono, allo stesso tempo, uguale ad ogni essere  umano. Infatti, sfido chiunque a trovarmi due persone uguali. Non le troverà nessuno. Ed è la bellezza di questo nostro splendido mondo, siamo tutti “pezzi unici”. Il problema è che fatichiamo, a causa di retaggi storici, ad accettare e riconoscere che siamo tutti diversamente uguali.

Ed è proprio questa nostra difficoltà, questa resistenza, che blocca il nostro andare oltre le apparenze, oltre al rivestimento e lavorare sulla sostanza. Perché è vero che esistono delle differenze ma, al contrario di ciò che siamo portati a credere, sono differenze non riconducibili all’apparenza, al nostro senso visivo, alle nostre origini, al nostro credo, alle nostre preferenze sessuali o alle nostre disabilità …al nostro “genere”, all’età, …

Sono differenze che hanno origini più lontane, nello spazio e nel tempo, e profonde. Sono figlie delle culture (sociali e famigliari), dei valori che ci sono stati trasmessi e che abbiamo fatto nostri, del vissuto di ciascuno di noi, del ceto e del sentirci accettati dagli altri (persone e sistemi) e ancor più dell’auto accettazione. Sono figlie del nostro DNA emozionale, la memoria storica delle gioie e dei dolori vissuti dai nostri antenati. E sono proprio loro, le differenze sostanziali, che determinano i nostri comportamenti, il nostro agire e reagire, le nostre priorità, le nostri visioni delle cose e del mondo, il nostro modo di sentirci parte integrante dei sistemi ai quali apparteniamo, il come ci percepiamo e definiamo la grandezza dei nostri obiettivi. Differenze che impattano sulla logica del nostro pensare, sul rapporto con le emozioni e su quanto ci sentiamo autorizzati a puntare in alto. Non importa quanto, importa il verso…all’insù o all’ingiù.

E dal momento in cui stabiliamo che il colore, la religione, l’orientamento sessuale, il sesso e chi più ne ha più ne metta, da soli non determinano il nostro modo di agire, il nostro contributo alla società, allora perché non spostare l’accento “sull’ugualitá” anziché continuare a posizionarlo sulla diversità? In apparenza vi sembrerà uno spostamento banale, una sfumatura. Invece, secondo me, quel minuscolo spostamento è l’ago della bilancia…il cambio di prospettiva che porterebbe alla svolta. Iniziamo con lo stabilire un’unica linea di partenza: l’uguaglianza.

Anche perché, partire da un concetto che ci porti ad agire in modo positivo, quasi un invito alla comunione, dovrebbe indurci a mettere in campo energie altrettanto positive. Al contrario, parlare di diversità, nelle accezioni a cui siamo abituati e cioè sottintendendo che vi sia una normalità intorno alla quale ruota il tutto, induce a pensare immediatamente ad una contrapposizione: da un lato, il “noi”e dall’altro, il  “loro”. In eterna lotta.

Spostare l’attenzione sull’uguaglianza obbliga tutti noi alla responsabilità di educare alla parità. Quella parità che, a questo punto, non sarà più vista come punto d’arrivo ma il punto di partenza. Un punto di partenza volto ad accompagnare i giovani, ma non solo, alla ricerca ed accettazione del loro essere ciascuno diverso e, in quanto diversi, unici e complementari. Ed è solo a questo punto che potremmo fungere da guida per i nostri figli, intesi come figli del sistema in cui viviamo, nella ricerca della loro essenza, della loro chiamata, e incoraggiarli nella scoperta ed espressione del proprio potenziale. Solo così facendo potremmo parlare di valorizzazione ed inclusione delle diversità perché solo partendo da una vera parità potremmo riconoscere, accettare e includere le diversità. Diversità che, in questo nuovo contesto, saranno messe a sistema per l’evoluzione del sistema stesso. A fattore comune per allargare lo sguardo, cambiare la prospettiva ed avere un ventaglio di opzioni e quindi poter scegliere senza pregiudizio.

Albert Einstein diceva: “Un essere umano è parte di un intero chiamato Universo. Egli sperimenta i suoi pensieri e i suoi sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una specie di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è una specie di prigione. Il nostro compito deve essere quello di liberare noi stessi da questa prigione attraverso l’allargamento del nostro circolo di conoscenza e di comprensione, sino a includere tutte le creature viventi e l’interezza della natura nella sua bellezza.”

Educarci ed educare alla parità come elemento fondante del nostro essere umani, significa allenarci ed allenare a quell’allargamento  che porta alla comprensione e quindi all’inclusione, all’interezza. Ed è allora, e solo allora, che potremmo automaticamente garantire le stesse opportunità di progredire ad ogni individuo e fare in modo che, oltre al rispetto del singolo e dell’interezza, accresca in ciascuno di noi la consapevolezza che il proprio agire, pensare e sentire avrà delle ricadute, in senso positivo o negativo, sull’esistenza di altri individui.Dovremmo imparare a fare nostra la frase di Rosa Parks che dice: “Vorrei essere conosciuta come una persona che è preoccupata per la libertà e la uguaglianza, la giustizia e la prosperità per tutti!”

La storia, passata e recente, ci insegna che educare alla diversità, come la intendiamo e percepiamo nelle società moderne,  in realtà ha creato oppressi ed oppressori (a tutti i livelli di contrapposizione tra un “normale” e il “diverso”).

Spostare l’accento, dalla diversità “all’ugualità”,  significa non dover, ancora oggi, parlare di tutela delle minoranze,  rivendicare pari dignità per le vite dei neri, elemosinare una rappresentanza o chiedere più voce in capitolo…significa non subire più violenza, fisica e psicologica. Significa capire che diverso vuole appunto dire diverso…né migliore né peggiore. E significa impegnarsi, tutti insieme, affinché ogni individuo abbia il diritto e la libertà di poter calpestare ed abitare ogni angolo della terra… e respirare liberamente.

(Mehret Tewolde attivista eritrea da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani è oggi Executive Chief presso Italia Africa Business Week)

Associated Medias – tutti i i diritti sono riservati