Louis Vuitton e il fenomeno Pharrell Williams

Qualche considerazione sulle recenti decisioni del marchio di moda: operazione consapevole o scelta di marketing?

A quasi due anni dalla scomparsa di Virgil Abloh, Louis Vuitton scioglie il nodo della successione incoronando Pharrell Williams direttore creativo, aggiungendo un’altra riga ad una biografia talmente straordinaria da sembrare frutto di un ghostwriter.

Nasce nel 1973 a Virginia Beach, uno di quei luoghi letterari con il lungomare punteggiato da palazzoni e palme, la ruota panoramica per il primo bacio e una gigantesca statua di Nettuno made in China utile a dare i nomi a ristoranti, alberghi e negozi di souvenir della zona. Una tipica località neorealista in salsa yankee con scuole prestigiose e periferie difficili, perfetta sia per commedie romantiche che serie true crime.

A 12 anni frequenta un laboratorio Jazz dove conosce Chad Hugo, con lui forma i The Neptunes e insieme sperimentano i palchi e le prime produzioni: dal ‘92 lavorano ancora sotto lo stesso nome.

Nel 2018 sposa la fidanzatina storica, con la quale ha quattro figli.

Nel frattempo vince una valanga di Grammy, è candidato agli Oscar diverse volte ed è considerato da Billboard il produttore più influente degli anni 2000, avendo collaborato con tutto l’album di figurine della scena pop, rap e hip hop degli ultimi 20 anni. Nel 2017 riceve una laurea honoris causa dalla New York University, poco dopo regala alla città natale “Something in the Water”, festival multidisciplinare tra uguaglianza razziale e nuove tecnologie, con l’intrattenimento musicale di un paio di amici tra i quali Jay-Z, Snoop Dogg e Missy Elliott. L’impegno filantropico di Pharrell è costante: borse di studio per i ragazzi di Harlem, una fondazione benefica, centri per i giovani nelle comunità a rischio.

Un Lancillotto della east coast con lo stile di James Bond (nei ritagli di tempo vince anche il premio “Best Dressed Man in the World” di Esquire).

Tra i suoi amici intimi c’è un signore in bianco e nero con gli occhiali scuri che gli apre le porte della più conservatrice fra le case di moda: sarà il primo a creare una collezione capsula per Chanel, ma il genio immortale di Karl Lagerfeld non farà in tempo a vederla.

Saltella nella moda da Uniqlo a Moncler (e buona parte di ciò che sta in mezzo), crea due marchi di cui uno si chiama Billionaire Boys Club, come il libro di Sue Horton (famoso per la trasposizione cinematografica del 2018) basato sulla storia vera di un gruppo di giovani dell’alta società che si rovinano la vita truffando con lo schema Ponzi: nome ironico per un marchio streetwear di lusso pensato per i giovani dell’alta società che si rovinano la vita truffando con lo schema Ponzi. Pharrell è anche divertente, maledetto ghostwriter.

Arriviamo a oggi.

La prima notizia è l’inizio di un nuovo corso per la casa francese, la seconda è che il lutto per Virgil Abloh è ufficialmente finito, la terza è che nessuno era davvero pronto. Tre notizie e una domanda: cosa sta facendo Vuitton?

Intendiamoci, Pharrell Williams sa fare quasi tutto meglio di quasi tutti, che l’abbiano scelto stupisce come un gol a porta vuota di Messi: ma c’è un ma grande quanto il robottone della Kusama appollaiato sulla sede parigina della Maison.

A questo punto è necessario un passo indietro.

Quando nel 2021 Virgil Abloh venne tragicamente a mancare, voci di corridoio davano Kanye West come successore naturale, una sorta di passaggio di consegne spirituale considerato il rapporto fraterno fra i due.

Affidarsi al suo primo mentore sembrava per Vuitton un modo per onorarne la memoria, mentore che tra l’altro col marchio Yeezy contribuiva già al fatturato Adidas con circa 1 miliardo di dollari.

Kanye West ha rovinato tutto dando il peggio di sè con dichiarazioni antisemite deliranti, conquistando il secondo posto nella speciale classifica all-time dei sabotatori di carriere luminose, alle spalle di Yoko Ono.

Virgil Abloh è stato un’icona, ha reinventato la sneaker culture e un terzo delle persone sulla Terra hanno camminato con le sue idee ai piedi, e molto più di questo.

La scelta è ricaduta su Williams, una versione di Abloh ancora più mainstream ma con lo stesso identico sapore. La sottile differenza tra i due, però, è che il primo è stato un genio del design, il secondo è un genio dell’imprenditoria.

Kanye e Pharrell sono solo due delle numerose star del rap ad aver sconfinato nella moda con successi da capogiro, chiudendo il cerchio che voleva i grandi marchi di alta moda citati nei testi come simbolo di rivalsa sociale del ghetto, fino a diventare essi stessi icone del lusso.

Un’ascesa che sarebbe limitante rinchiudere nella categoria degli influencer, specialmente al netto di biografie così rilevanti, ma è un fenomeno che senza dubbio merita più di una riflessione.

Cosa sta facendo Vuitton era la domanda: se affidarsi a personaggi iconici sembra la normalità per tutti (i testimonial non sono certo nati ieri) il modo in cui vengono manipolate e commercializzate le collaborazioni fa la differenza.

È recentissima la controversa mega campagna pubblicitaria con Yayoi Kusama sempre ad opera di Vuitton. Un’artista gigantesca – anche in senso fisico considerati i pupazzi col suo volto grandi come King Kong – completamente svuotata di significato e resa meme, decenni di lavoro trasformati nella statua di Nettuno made in China.

Eppure la storia è piena di eccelse collaborazioni tra arte e moda prive di sensazionalismi come Mondrian per Yves Saint-Laurent, Lucio Fontana omaggiato da Mila Shön, Dalì con Schiaparelli.

Nel mondo dell’arte un artista proveniente da un contesto diverso viene guardato con sospetto, considerandolo al meglio un lucky loser per tutta la vita, ma questo non accade altrove. Se l’arte conserva un discutibile snobismo vintage, parlare di “separazione delle carriere” nel 2023 sa di naftalina, tutto è fluido compreso il concetto di creatività che sembra non avere più sfumature, applicabile senza distinzioni ad ogni settore: è un bene? È un male? Non ci addentriamo in giudizi morali.

Sarebbe però interessante sapere cosa ne pensino davvero, non pubblicamente ma seduti sul divano di casa, Olivier Rousteing (designer classe 1985, enfant prodige di Balmain), Frida Giannini o Alessandro Michele, professionisti cresciuti a bozzetti e crinoline.

I motivi delle recenti scelte di Vuitton sono comprensibili senza un PhD in marketing, ma la sensazione è quella di una resa consapevole. Una direzione creativa generale narrata come ampia e progressista, ma che in realtà è ingannevole e limitata: non solo ridurre l’arte a merchandising e gli atelier in costosissimi negozi di souvenir di Virginia Beach, ma assecondare la moda rinunciando a fare la moda, scegliendo lo stupore al posto della magia.

Virgil, l’ho detto che non eravamo pronti.