Myanmar: una democrazia ancora sotto assedio

Di Annachiara Mottola di Amato

Il tribunale della giunta birmana controllata dai militari ha condannato Aung San Suu Kyi, ex leader politica del Paese e premio Nobel per la pace nel 1991, a cinque anni di prigione per corruzione. 

Per San Suu Kyi, 76 anni, agli arresti domiciliari dal golpe militare dello scorso febbraio, si tratta dell’inizio di un iter giudiziario che potrebbe rivelarsi infinito, costringendola alla reclusione in carcere a vita.

Con 11 procedimenti penali a suo carico, infatti, Suu Kyi di essere condannata per un totale di 150 anni di carcere.

Le accuse sono le più diverse: dal possesso illegale di walkie-talkie (per cui è stata già condannata a tre anni), alla violazione della legge sui segreti ufficiali, fino ai brogli elettorali che, secondo gli esponenti della giunta militare saliti al potere, avrebbero determinato la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) alle elezioni legislative del 2020. In questo caso si trattava di aver accettato una tangente di 600.000 dollari in contanti e undici chili d’oro dall’ex ministro che governava la regione di Yangon, Phyo Min Thein.

In molti dall’esterno, tra attivisti e osservatori, hanno definito le accuse ingiustificate e motivate esclusivamente da finalità politiche. Su questo punto si sono espresse le Nazioni Unite, il segretario di Stato statunitense, Anthony Blinken e la Commissione Europea, condannando duramente negli scorsi mesi quanto sta avvenendo in Myanmar.

Il colpo di stato dei militari, infatti, è stato avvertito a livello internazionale come una cesura improvvisa del periodo di transizione democratica iniziato nel 2015, quando la gestione del potere, sotto la guida de facto di San Suu Kyi, si è aperta rispetto alla cerchia ristretta dei militari. La Commissione Ue, in particolare, ha più volte ripetuto “l’appello urgente per il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici”  affermando che il processo ai danni della leader birmana rappresenta “un altro passo verso lo smantellamento dello stato di diritto, un’ulteriore palese violazione dei diritti umani in Myanmar e un altro grande passo indietro per la democrazia”.

A uno sguardo più approfondito, però, la realtà del Paese appare più complessa. 

Come lo è la vicenda personale, politica e processuale di San Suu Kyi che non può essere iscritta all’interno di una cornice di significato dicotomica che concepisce i campi dei buoni e dei cattivi definiti e separati.

Per questo motivo analizzare la situazione birmana, prima e dopo il colpo di stato, in termini di democrazia contro autoritarismo non riesce a cogliere i chiaroscuri della travagliata storia del Paese. 

Anche a seguito della transizione democratica, infatti, il governo guidato dalla Lega nazionale per la democrazia ha ricevuto molte critiche, in primo luogo per l’esclusione di diverse forze politiche dalle liste elettorali , per aver di fatto negato il diritto di voto a 1,5 milioni di elettori non appartenenti all’etnia bamar (su un elettorato di 37 milioni di persone) e per la decisione di cancellare le elezioni in due stati molto conflittuali, Shan e Kachin. L’accusa più grave, però, è quella di aver tacitamente permesso il genocidio nei confronti dei rohingya, minoranza etnica musulmana ad oggi concentrata per lo più nello stato di Rakhine, nell’ovest del Paese.

Nei loro confronti le discriminazioni sono iniziate da decenni ma è dal 2015 che, secondo molti,  la persecuzione ha assunto caratteri più definiti e sistematici, causando l’esodo di circa 1 milione di rohingya in Bangladesh. Per questo motivo negli scorsi anni, da più parti, era stata avanzata la proposta di ritirare il Nobel per la Pace a San Suu Kyi, conferitole per la sua lotta pacifica contro il regime militare birmano, quando era ancora in carcere. Tale riconoscimento strideva, infatti, con l’accusa di connivenza del suo governo rispetto all’efferato sterminio dei rohingya. 

Le numerose denunce che hanno investito gli ultimi anni del suo governo testimoniano l’estrema fragilità del tessuto democratico del Paese anche nella stagione “felice” di Suu Kyi.

Appare, pertanto, poco comprensibile lo stupore collettivo che accompagna il  recente colpo di stato che si inserisce in un contesto estremamente fluido e dinamico, in un momento storico in cui gli equilibri del Paese non erano affatto consolidati e definiti. Certo il ritorno dei militari al potere, la nuova stagione dei processi contro gli oppositori politici, rappresentano una grave battuta di arresto in un processo democratico continuamente assediato da più fronti.

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