L”Ouverture” del nuovo museo parigino del grande imprenditore del lusso francese, il modo migliore per ricominciare a vivere l’arte dopo l’oscura fase delle chiusure pandemiche
di Guido Talarico
Da una città come Parigi, dalla storia secolare e da sempre pronta alle rivoluzioni, politiche, sociali e, naturalmente, anche culturali, è normale attendersi grandi cambiamenti. Per restare al nostro, cioè al mondo della cultura dal dopoguerra ad oggi, basta ricordare gli effetti che nella popolazione, e anche in una certa critica più conservatrice, provocarono interventi architettonici in contesti di grande rilievo culturale. Pensiamo alla nascita del Centre Pompidou, il celebre Beaubourg dei due architetti italiani Renzo Piano e Richard Rogers, che con i suoi tubi, i suoi acciai e i suoi vetri a vista, ruppe irrispettosamente la vecchia skyline del Marais. Oppure alla piramide dell’architetto cinese naturalizzato americano, Leoh Ming Pei, che con i suoi vetri riflettenti alterò per sempre la geometria e la luce di un luogo sacro come il Louvre. O, ancora, il Musée d’Orsay opera di altri due italiani, Gae Aulenti per la parte architettonica e Piero Castiglioni per la parte di light design, che mise acciaio su acciaio per modificare per sempre un monumento alla storia dei trasporti di Francia nato per l’esposizione universale del 1900.
È in questo contesto che va inquadrata la rinascita della Bourse du Commerce, imponente struttura impiantata nel cuore di les Halles, tra il Louvre e Beaubourg, al centro del 1° Arrondissement. Costruito da Caterina de’ Medici (gli italiani a Parigi, al di là delle messe napoleoniche, ci sono sempre) sui resti di un edificio del 1232, questo sontuoso palazzo rimanda alle architetture utopiche del diciottesimo secolo. E’ stato affittato a Francois Pinault, proprietario di Kering, multinazionale della moda, per trasformarlo in museo dove ospitare la propria collezione di opere contemporanee, una scelta che va proprio nel solco delle grandi trasformazioni culturali di Parigi. Un nuovo spazio espositivo, concesso in locazione per 50 anni (rinnovabili), che si inserisce nella serie delle innovazioni architettoniche come quelle appena menzionate, unitamente al museo che la Fondazione Louis Vuitton, dell’amico rivale di Pinault, vale a dire il proprietario di LVMH, Bernard Arnault, ha aperto qualche anno fa al Bois de Boulogne.
Insomma, se la Francia è la patria delle rivoluzioni, Parigi è la patria dei grandi cambiamenti culturali. Fatti sempre con coraggio e gestiti sempre per mantenere alta la grandeur di un paese che sulla cultura basa larga parte del suo prestigio. Arnault e Pinault (foto a sn) sono due competitori che nei loro business (moda, spiriti e arte) si combattono aspramente. Ma sono anche le due personalità che nei fatti hanno dimostrato come un paese lungimirante deve sapere tutelare i propri patrimoni, le proprie unicità ed anzi, come le tantissime acquisizioni fatte da entrambi in Italia dimostrano, deve saper crescere anche all’estero mantenendo sempre il giusto approccio alla difesa dei valori intrinsechi di ciascuna proprietà, culturale o industriale che sia. I grandi spazi museali dedicati all’arte contemporanea che questi due grandi imprenditori hanno creato a Parigi ancora una volta dimostrano di quale visione e di quali capacità realizzative essi siano capaci. Allo stesso tempo va doverosamente ricordato che questi progetti di trasformazione dell’urbanistica culturale non si realizzano senza l’aiuto di un sistema pubblico collaborativo ed all’altezza.
Questo per inquadrare il dove ed il perché. Venendo alla Collezione di Pinault calata brillantemente in un contesto così classico soltanto grazie alla saggia inventiva di un maestro dell’architettura come Tadao Andō non voglio farmi frenare da una atavica ritrosia verso i superlativi. Qui siamo d’innanzi ad un lavoro magnifico. Questo nuovo museo di Pinault, presieduto da Jean-Jacques Aillagon e diretto da Martin Bethenod, raccoglie una collezione costruita in 40 anni, formata dai lavori di 380 artisti internazionali, da diecimila opere tra pittura, video, fotografia, scultura, installazioni e performance. Come sempre non tutto può piacere, non tutto può apparire coerente. Ma nel complesso è una collezione sontuosa, entusiasmante che ben rappresenta le passioni, le ansie, le gioie e la rabbia di alcuni tra i migliori artisti della nostra epoca. E poi, non dimentichiamolo, è una collezione privata che quindi, come è giusto che sia, deve innanzitutto piacere a chi la costruisce.
Per farvi capire come si sviluppa questo nuovo museo, partiamo dal progetto architettonico: Tadao Andō ha costruito nella sala centrale della vecchia borsa un contenitore cilindrico di cemento, alto nove metri e con un diametro di 29, che lascia un’area espositiva centrale di 626 metri quadrati sovrastata da una cupola in vetro e metallo, che vede nella parte sottostante ben 1.400 metri quadrati di affreschi restaurati da Alix Laveau. Affreschi che celebrano l’epopea dei grandi scambi commerciali tra continenti. Nel complesso un colpo d’occhio forte dove però la freddezza del cemento armato aiuta a distinguere i due mondi: il classico ed il contemporaneo.
La mostra inaugurale ha un titolo didascalico, “Ouverture”, che indica sia l’apertura del museo ma, cosa forse ancora più importante, la riapertura post pandemica. Insomma, un ritorno alla normalità per il mondo dell’arte che come pochi altri ha pagato un prezzo altissimo a causa del virus. “Ouverture” comprende il lavoro di trentasei artisti in quasi 200 opere. La maggior parte dei lavori si sofferma sulla figura umana, chiamando al confronto sia star internazionali che giovani di talento.
Il cuore della mostra è nella rotonda centrale. Qui Urs Fischer da il meglio di se confrontandosi su un tema come la caducità della vita in maniera superba: al centro della scena una copia in cera del “Ratto delle Sabine” del Giambologna. È paraffina ma sembra veramente marmo. Tutte intorno a circondare questo capolavoro rifatto sedie di forme strane e la statua di un amico dell’artista, anche questa tutto in cera. La genialità sta nel fuoco. Tutte le opere in realtà sono grandi candele che ardono consumando l’opera stessa. Una lenta ma inevitabile consunzione. Il fuoco che partendo dagli stoppini brucia le opere così come il tempo consuma le nostre vite. Una rappresentazione teatrale d’impatto dedicata alla fragilità e alla deperibilità di ogni esperienza umana, costruita in un ambiente dal respiro vagamente religioso che esalta il messaggio dell’artista.
Quello che fu un giorno il tempio del commercio in questa nuova versione animata dai lavori di Pinault trova una nuova grazia in ogni suo angolo, in ogni suo salone che Tadao Andō ha saputo riconvertire in spazi adeguati alle belle arti. La Galleria 2, ad esempio, mostra molti lavori di David Hammons, artista tra i più amati di Pinault che non a caso ne possiede la più vasta collezione al mondo. Qui si vede tutto l’impegno dell’artista afroamericano nelle lotte per la difesa dei diritti umani. La sua bandiera americana, sbiadita dal tempo e ricolorata dalle tinte che caratterizzano dell’unità panafricana, è un simbolo di questo suo impegno. Splendido anche il suo canestro con lampadario, inno ieratizzante dello sport per eccellenza dei neri d’America.
Anche gli italiani sono ben rappresentati nel Pantheon artistico di Pinault. I piccioni di Cattelan fanno un capolino sulla rotonda, occupando una bella fetta del basamento della cupola, mentre i ritratti di Rudolph Stingel troneggiano all’ingresso del primo piano, dedicato alla fotografia, dove dentro spiccano Michel Journiac e le sue 24 ore nella vita di una donna comune, o anche l’americana Louise Lawler per Helms Amendment, un’opera politica di grande critica contro un “muro della vergogna”.
Non entravo in un grande museo da molti mesi a causa del Covid, come tutti. Avere ricominciato da Parigi, prima dalla Galerie Perrotin e poi alla Bourse du Commerce, era quello che ci voleva. L’arte è vita e questo è stato un bel modo di riappropriarsene.
(Associated Medias) – Tutti i diritti sono riservati