Russia: la vicenda Prigozhin rimane un rebus, l’incertezza non rassicura Kiev e le cancellerie occidentali

Le oscure manovre che riguardano i mercenari della Wagner hanno spiazzato l’intera categoria degli osservatori internazionali, impotenti a decrittare gli incoerenti sviluppi e i criptici retroscena

di Gianni Perrelli

Più passano i giorni e più si addensano le cortine fumogene intorno a uno dei più indecifrabili tentativi di golpe della storia. La contraddittoria carrellata di eventi andata in scena fra venerdì 23 e sabato 24 giugno fra Rostov e Mosca, conclusasi con l’esilio in Bielorussia di Evgheni Prigozhin e della sua armata Wagner che non combatterà più in Ucraina, ha spiazzato l’intera categoria degli osservatori internazionali. Impotenti a decrittare gli incoerenti sviluppi e i criptici retroscena. In grado, tutt’al più, di formulare una serie di ipotesi magari logiche ma prive di riscontri reali e quasi sempre rimesse in discussione da fattori imprevisti.

Nello spaesamento generale è rimasta a galla la famosa frase di Winston Churchill che dipinse così l‘Unione Sovietica: “Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”. Concetto pronunciato alla radio nel 1939, quando per cercare di intuire le dinamiche di vertice i cremlinologi non avevano altro strumento che lo studio della dislocazione dei potenti nelle parate di Stato. A oltre 80 anni di distanza l’aforisma churchilliano sulle opacità moscovite rimane di grande attualità.

Dando per scontato che il vero intento di Prigozhin e il singolare straniamento di Vladimir Putin non verranno mai interamente chiariti è più interessante adesso cercare di capire le possibili ricadute del fallito golpe sullo scacchiere internazionale. Attraverso le mosse di quattro protagonisti: Putin, Prigozhin, Aljaksandr Lukashenko (il dittatore della Bielorussia) e Volodymyr Zelensky (presidente dell’Ucraina). E di due comprimari: le superpotenze Usa e Cina.

A detta di quasi tutti i politologi Putin appare indebolito. La sfida lanciatagli da Prigozhin, capo della Wagner (l’esercito di mercenari che ha assicurato a Mosca il controllo in Africa delle ricchezze di larga parte del Sahel e più efficacemente ha combattuto nella finora fallimentare campagna ucraina), ne ha incrinato un’immagine che ha perso la solennità del potere assoluto. Le sue esitazioni, perfino nel punire esplicitamente l’ex alleato che aveva in animo di detronizzarlo, rivela uno smarrimento che non si concilia più con i ferrei canoni della dittatura. Certo, è ancora in sella. Può ancora far finta di niente per dimostrare che non è successo nulla di drammatico. E volare qualche giorno dopo nella defilata provincia del Daghestan per parlare spensieratamente di turismo.

Ma non può ignorare che nella crepa aperta da Prigozhin potrebbe infilarsi qualche oligarca o qualche generale meno screditato e meno avventurista. A meno che (per calcolo machiavellico ancora oscuro) non sia stato proprio lui a ordinare all’esercito regolare di non fermare la rivolta, potrebbe già non avere più il completo controllo dei vertici militari. Come indicherebbe il presunto arresto del generale Sergei Surovikin, che ha a lungo guidato le operazioni in Ucraina e interloquiva frequentemente con Prigozhin. E neanche avrebbe forse più il totale sostegno dei servizi segreti da cui proviene che pare fossero a conoscenza dei piani del golpe e non si sa se abbiano tempestivamente avvertito lo zar del Cremlino.

Non si staglia però ancora la figura di un successore. Nella corte che circonda Putin nessuno fiata. E i generali Sergei Shoigu  e Valerij Gerasimov, che Prigozhin voleva eliminare dalla scena, sono ancora al suo fianco. L’opposizione ha voce flebile anche negli ambienti evoluti delle grandi città. Mentre nelle sterminate campagne, in cui l’unica fonte di informazione è il telegiornale di Stato, rimane quasi intatto (malgrado i fallimenti in Ucraina) il consenso per lo zar visto come baluardo del patriottismo. La spinta per un rovesciamento potrebbe semmai arrivare dall’estero, dove l’imprenditore Michail Khodorkovsky (a lungo perseguitato dal regime) da Londra manovra ma con scarsi risultati per l’avvento della democrazia.

Il 17 marzo 2024 si voterà in Russia per l’elezione del presidente. Putin, se sarà ancora in sella, potrebbe essere confermato anche se proseguisse lo stallo della guerra. Ma fiutando tempi ancora più difficili potrebbe pure farsi da parte brigando magari per l’ascesa al potere di un suo uomo di fiducia (il tam tam delle voci segnala una probabile promozione ai vertici militari di Alexey Dyumin, ex guardia del corpo dello zar).

Russia: Rebus…mistero….enigma

Prigozhin non si sa nemmeno dove sia esattamente. Nessuno l’ha più visto dalla sera in cui ha lasciato Rostov firmando autografi. Si sa che il suo aereo privato un paio di giorni dopo è atterrato a Minsk. Lukashenko assicura che è in Bielorussia. E corrono voci che sia stato relegato in un hotel a tre stelle, in una stanza senza finestre per evitare che faccia la fine di tanti oppositori di Putin misteriosamente defenestrati. Nell’unica sua dichiarazione rilanciata dopo la ritirata ha affermato di non aver mai messo in atto un golpe. La sua era semplicemente una marcia di protesta contro l’inettitudine e la corruzione dei vertici dell’esercito ufficiale. Precisazione che sicuramente non avrà attenuato l’ira funesta di Putin per il tradimento.

Ma se il Cremlino voleva punirlo perché non farlo fuori subito, in patria, anziché graziarlo e consegnarlo a Lukashenko in condizioni d semicattività o perlomeno di clandestinità? Lo zar non si è mai fatto scrupoli con i suoi nemici, come dimostrano le vessazioni carcerarie inflitte a  Aleksei Navalny. L’ipotesi più verosimile è che Putin abbia ancora bisogno della spregiudicatezza di Prigozhin e della ferocia bellica dei suoi guerrieri. In Ucraina se si rimangerà la parola e deciderà di attaccarla anche dalla Bielorussia a cui ha già consegnato le armi nucleari tattiche. O in Africa, il forziere dei materiali preziosi che servono ad alimentare la filiera della tecnologia avanzata, dove Prigozhin ha esteso i suoi tentacoli.

Lukashenko, marionetta di Putin, può oggi vantarsi di aver scongiurato il peggio con la sua azione mediatrice. Non si sa bene quanto in questo caotico scenario abbia pesato la sua influenza. Di certo ne ha ricavato un enorme vantaggio, Rimane un paria agli occhi della comunità internazionale. Ma intanto, con il patto che prevede il sia pur provvisorio insediamento della Wagner in Bielorussia, ha a disposizione una nuova armata che può meglio difenderlo dai piani rivoluzionari della sua opposizione. E, se fosse caduto Putin, un minuto dopo avrebbe perso quasi sicuramente il potere anche lui.

Zelensky si era per 48 ore illuso che la marcia su Mosca sfociasse nella caduta di Putin con possibili riflessi sulle prospettive di negoziato. Ma le speranze sono immediatamente rientrate. E’ vero che la controffensiva ucraina, irrobustita dai nuovi sofisticati armamenti forniti dall’Occidente, comincia a produrre i primi effetti. Ma ancora troppo lentamente. Le truppe russe, dopo lo sbandamento dovuto alla suspense per l’ammutinamento della Wagner, si sono rapidamente riposizionate a difesa dei territori conquistati in Donbass e della Crimea. E neanche la missione in Russia del cardinale Matteo Zuppi, l’inviato del Papa, sembra aver favorito la distensione. La guerra di attrito continuerà, si teme, ancora per lungo tempo.

E poi ci sono i convitati di pietra: Stati Uniti e Cina. Pare che la Cia fosse al corrente delle mosse insurrezionali di Prigozhin. Ma si ignora se Joe Biden abbia informato o meno Putin. In ogni caso la sensazione è che gli Usa non vedessero alcun utile nella detronizzazione dello zar. Soprattutto se fosse stato sostituito da un personaggio sulfureo come Prigozhin. O da un leader, magari un generale, ancora più duro e nazionalista di Putin. In che mani sarebbero finite le migliaia di testate nucleari di cui dispone la Russia? In ballo non ci sarebbe stato più soltanto il futuro dell’Ucraina ma quello dell’intera umanità.

Neanche dalla Cina arrivano notizie certe. A Pechino sapevano del golpe in cantiere? O pure Xi Jinping è stato preso alla sprovvista? Nelle dichiarazioni successive Pechino ha ribadito, sia pur tiepidamente, l’asse strategico con Mosca in nome dei comuni ideali avversi a loro avviso alle degenerazioni dell’Occidente. Ma anche la Cina ha più interesse che rimanga al timone Putin. Un Putin indebolito, e più controllabile, piuttosto che un nuovo leader che potrebbe rivelarsi più fanatico, più indipendente e meno manovrabile.

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