Patrizia Sandretto celebra i 25 anni della sua Fondazione

Photo Stefano Sciuto

La Fondazione torinese si prepara ai festeggiamenti. Una buona occasione per ripercorrere con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente, gli anni passati e guardare al futuro

Gianpaolo Cacciottolo

Nello scenario composito dell’arte contemporanea in Italia le fondazioni ricoprono ormai da tempo un ruolo decisivo nel processo di produzione culturale e nelle sue dinamiche di diffusione. Uno degli esempi di maggiore rilievo è rappresentato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, un’istituzione attiva dal 1995, sempre più al centro dei meccanismi del sistema dell’arte italiano e internazionale. La volontà originaria di dare forma a una collezione è stata affiancata negli anni all’esigenza di renderla fruibile al grande pubblico, e al desiderio sempre più forte di sostenere concretamente l’arte e gli artisti nella realizzazione di nuove opere, nella costruzione di nuove esperienze e nella creazione di nuovi racconti. Dal 1997, anno di inaugurazione della sua prima sede, a Guarene d’Alba, a oggi, la Fondazione ha svolto un’incessante attività di produzione e sostegno all’arte e agli artisti, attraverso mostre ed eventi diversificati che hanno trovato poi nel 2002 una nuova collocazione, la attuale e principale sede espositiva situata a Torino nel quartiere San Paolo. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente, ci ha raccontato come festeggerà questi primi venticinque anni di attività, parlando di futuro e ripercorrendo alcune delle tappe più significative del suo percorso.

Collezione, produzione, educazione e formazione. Possiamo identificare questi quattro elementi come assi portanti della Fondazione?
«Ho iniziato a collezionare nel 1992 e, dal desiderio di avere un ruolo più attivo nel sistema dell’arte contemporanea, collaborando più efficacemente con enti e istituzioni italiani e internazionali, nel 1995 è nata la Fondazione: un centro d’arte impegnato nell’organizzazione di mostre e nella produzione di opere delle giovani generazioni artistiche. Da subito abbiamo introdotto l’attività educativa e più avanti i programmi di formazione: la Residenza per giovani curatori stranieri, nata nel 2007, e Campo, il corso per curatori italiani avviato nel 2012».

Adrian Villar Rojas, Rinascimento, 2015

Venticinque anni di intensa e multiforme attività. Riuscirebbe a scegliere tre mostre che hanno rappresentato  momenti fondamentali nella storia della Fondazione?

«Non toccare la donna bianca, la mostra collettiva inaugurata nel settembre 2004, e ispirata al titolo di un celebre film di Marco Ferreri: una delle tappe di un anno dedicato interamente alla donna, che proponeva un ricco calendario sul tema del femminile nell’arte contemporanea con conferenze e mostre, tra cui la personale di Carol Rama. Greenwashing, nel 2008, in grande anticipo rispetto al dibattito attuale sui cambiamenti climatici: una collettiva di 25 artisti internazionali che ha rappresentato l’apice del ciclo Ambiente, in un intero anno di mostre, incontri, progetti e laboratori dedicati al tema cruciale dell’ecologia.
Adrian Villar Rojas. Rinascimento: la prima personale italiana dell’artista argentino, nel 2015, che ha trasformato l’intera sede torinese in un’installazione site-specific monumentale, immersiva, piena di pathos, interamente prodotta dalla nostra Fondazione».

Il collezionismo è innanzitutto gusto ed empatia. A quali opere della sua collezione si sente più affezionata?

«Nel mio caso la scelta delle opere nasce sempre dal dialogo con l’artista. Una collezione è un racconto, un filo rosso che intreccia la biografia del collezionista a quella degli artisti, le storie individuali a quelle delle città, delle tendenze, dell’attualità. Collezionare è un po’ come esplorare, disegnando la propria mappa del mondo. Non cerco di acquisire opere di artisti già affermati, non sono alla ricerca del grande nome ma punto l’attenzione sulla singola opera, che scelgo in base alla sua capacità di cogliere con precisione il presente, di riflettere in modo inatteso sul passato, di immaginare il futuro. Sono molte le opere a cui sono affezionata.

Maurizio Cattelan, Bidibidobidiboo 1996, photo Zeno Zotti

Vorrei citare quelle che nella collezione hanno avuto una funzione più ampia: The Acquired Inability to Escape, Inverted and Divided di Damien Hirst, perché è un’opera legata al mio amore per la British Art; Bidibidobidiboo di Maurizio Cattelan, che oggi considero uno degli highlights della mia collezione, un condensato di ciò che amo della ricerca dell’artista: un ossimoro, una somma dirompente di ironia, distacco, empatia, profondità; Untitled Film Stills di Cindy Sherman perché coglie il mio grande interesse per l’arte femminile; Electric Earth di Doug Aitken per la sua importanza nella storia delle video installazioni».

Una postazione sempre più stabile nel panorama italiano dell’arte contemporanea, ma anche una volontà sempre più forte di estendere i propri confini. Un dinamismo che ha portato la collezione ad essere esposta in varie parti del mondo e in ultimo anche a una nascente sede madrilena. Cos’altro dobbiamo aspettarci? Possiamo avere qualche anticipazione su progetti futuri?

«L’arte contemporanea ha la grande capacità di esplorare i confini e di superarli. Ho costruito l’identità della Fondazione a partire dal confronto con la scena internazionale, attraverso le collaborazioni con i suoi protagonisti: direttori, curatori, artisti e istituzioni di riferimento, veicolando mostre della collezione in giro per il mondo. Il 2020 sarà un anno ricco di mostre, di eventi e di riflessioni. A Torino il primo aprile inaugureremo Neural Swamp, la personale dell’artista afroamericana Martine Syms, e, in un dialogo a distanza con l’opera di Syms, proporremo un riallestimento di Electric Earth, seminale videoinstallazione di Doug Aitken, che la Fondazione ha prodotto nel 1999 in occasione della Biennale di Venezia.

Doug Aitken, Electric Earth, 1999

A ottobre, in collaborazione con il Goethe-Institut, presenteremo il festival Everything Passes Except the Past, una programmazione di eventi discorsivi e performativi sul tema dei residui coloniali nelle collezioni museali e negli archivi europei, una riflessione sollecitata dalle recenti discussioni pubbliche sul tema del rimpatrio del patrimonio artistico africano. Inoltre a novembre una grande mostra collettiva esplorerà il rapporto tra corpo e tecnologia, un’indagine sulle trasformazioni del concetto di umano in relazione alle evoluzioni tecnologiche ed epistemologiche più recenti, attraverso opere storiche e nuove committenze. Il futuro è dunque al centro della nostra programmazione: questa è la prospettiva che abbiamo scelto per ribadire lo spirito di ricerca che ha guidato i nostri primi 25 anni di lavoro».