Stavolta le proteste in Iran sono diverse e il regime lo sa

La morte di Mahsa Amini mette a dura prova la leadership degli ayatollah. Finora né la repressione poliziesca, né le promesse del Presidente Raisí sono riuscite a calmare la protesta

di Gabriele Manca

Le autorità iraniane stanno bloccando l’accesso a Internet in diverse zone del Paese. L’obiettivo è nascondere, per quanto possibile, le immagini e i video delle incredibili proteste che sono scoppiate in seguito alla morte di Mahsa Amini, la 22enne deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale a Teheran perché non indossava correttamente il velo. Nonostante i tentativi di isolare il Paese dalla rete, immagini e video hanno comunque raggiunto i social. Da ormai una settimana, manifestanti di ogni genere, età ed estrazione sociale si scontrano con le forze dell’ordine, mettendole in fuga, perdendo la vita (si contano già 17 morti) e intonando cori contro il regime degli ayatollah e contro Khamenei, l’attuale guida suprema dell’Iran. In prima linea ci sono le nuove generazioni: le ragazze si tolgono gli hijab, li sventolano o li bruciano. Altre ancora si tagliano i capelli in segno di sfida.

L’Iran è solito rallentare la connessione internet durante i momenti di protesta per evitare che le immagini del dissenso, e della repressione, arrivino in rete. La velocità con cui i social possono trasmettere i contenuti è un qualcosa che spaventa tutti i regimi autocratici. Una volta in rete, le immagini delle proteste rimbalzano a ritmi incontrollabili, rischiando di incoraggiarne di ulteriori in altre zone del Paese e diventare virali a livello globale; in questo modo, le autorità perdono la capacità di modellare e filtrare l’informazione. Per tutti questi motivi, a fronte della vastità e spettacolarità delle proteste per Amini, le autorità iraniane hanno deciso che non basta rallentare la connessione internet, è necessario annullarla. È una misura estrema, in un caso estremo. Gli iraniani sono soliti scendere in piazza per protestare, ma questa volta è diverso. Ad animare le proteste non è la difficile condizione economica in cui versa il Paese, per cui gli ayatollah possono scaricare parte delle responsabilità sulle sanzioni occidentali (l’Iran è il secondo Paese più sanzionato al mondo dopo la Russia), ma l’anacronismo delle sue istituzioni. La grande differenza delle manifestazioni attuali è che non si legano a un gruppo o a una classe sociale specifica, ma coinvolgono trasversalmente tutte le fasce della popolazione. La morte di Amini ha superato la frammentazione della società iraniana. I manifestanti chiedono di abolire la polizia morale, abolire lo hijab. Mettono in discussione le fondamenta ideologiche del Paese.

Quando l’ideologia perde il suo appeal sulla popolazione, la performance economica può essere un buon sostituto per mantenere la stabilità e sopperire alle tante mancanze, prima fra tutte la libertà, che le persone nei regimi autoritari devono affrontare. Se la popolazione si arricchisce sopporta di più. Se, invece, non vi è ideologia e neanche benessere economico iniziano a venir meno le basi del consenso. Il sovrapporsi della crisi sociale alla crisi economica potrebbe dar vita a un momento in cui gli iraniani prendono coscienza che uniti possono rovesciare il regime degli ayatollah, come successe con l’ultimo scià di Persia.

Se è vero che nessun cambiamento sociale si fonda su un episodio, è vero che spesso un evento può far esplodere ciò che ormai è latente da molto tempo. L’Iran attraversa da diversi anni una profonda crisi economica che, unita a una crisi sociale-ideologica come quella di adesso, potrebbe destabilizzare il potere degli ayatollah. Le sanzioni internazionali, intensificate da quando gli Stati Uniti nel 2018 si sono ritirati dall’accordo sul nucleare iraniano, hanno contribuito largamente a minare lo sviluppo economico del Paese. A ciò si sono aggiunte altre dinamiche di non poco conto, come il Covid-19 e la crisi ucraina. La pandemia ha bloccato per mesi l’economia, intensificando le spese pubbliche e facendo crollare le preziosissime entrate legate all’export di petrolio.

Nonostante l’economia iraniana sia moderatamente diversificata, gli idrocarburi rappresentano comunque la maggior fonte di guadagno, rendendo così fragili e volatili gli introiti del Paese. Dunque, le conseguenze economiche del conflitto in Ucraina non hanno fatto altro che aggravare una situazione già critica, portando alle stelle i prezzi degli alimentari. Secondo una intervista realizzata da Le Monde il prezzo di una confezione di formaggio si aggira sui 30.000 toman, cinque volte di più rispetto a un anno fa. L’inflazione ha reso impossibile per molte famiglie persino reperire lo yogurt, uno degli alimenti fondamentali della dieta iraniana, insieme al riso. Secondo molti, la classe media iraniana non esiste più. La crisi economica dura ormai da troppo e non dà segni di miglioramento, mettendo a dura prova la stabilità del Paese.

Di fronte a un contratto sociale già in bilico fra Stato e popolo, la morte di Mahsa Amini mette a dura prova la leadership degli ayatollah. Finora né la repressione poliziesca, né le promesse del Presidente Raisí di voler far luce sulla morte di Amini sono riuscite a calmare la protesta. Il Governo di Teheran ha davanti a sé giorni complicati e difficilmente la tattica della repressione, generalmente utilizzata, potrà essere l’unica risposta.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

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