Trump: un ciclone di incertezze e sfide per l’ordine mondiale alla vigilia delle elezioni 2025

Il ritorno di Trump sulla scena politica americana agita le acque internazionali. Tra incertezze sul suo approccio alle alleanze globali e timori per un rafforzamento dell’autoritarismo, il mondo attende il verdetto delle urne, conscio delle possibili ripercussioni sul sistema di equilibri internazionali.

L’intero globo stenta ancora a districarsi nel labirinto di angosce del doppio conflitto (Ucraina e Medio Oriente, la guerra mondiale a pezzi nell’incisiva immagine evocata da Papa Francesco). Per di più le grandi potenze navigano contemporaneamente nelle nebbie di un tempo sospeso, nell’attesa di capire se il ciclone Trump dal 2025 ricomincerà a scassare gli equilibri dell’ordine internazionale. Il verdetto si conoscerà solo il 5 novembre, data delle elezioni presidenziali americane. Ma già fin d’ora le cancellerie dei paesi più influenti approntano le strategie per parare gli impulsi imprevedibili del tycoon che fin dalla campagna elettorale minaccia di scardinare le istituzioni democratiche negli Stati Uniti ventilando un regime “dittatoriale” e di ricomporre nel resto del mondo il sistema tradizionale di alleanze.

Trump, che sta stravincendo le primarie repubblicane contro Nikki Haley, non è ancora il candidato favorito nella corsa alla Casa Bianca. E’ troppo presto perché i sondaggi riescano a tracciare orientamenti ben delineati. Di sicuro è agevolato dal progressivo deterioramento delle capacità di concentrazione di Joe Biden (81 anni)  che inanella una gaffe dietro l’altra. Ma anche lui (77 anni) ha cali di memoria e di lucidità che maschera con l’aggressività e l’arroganza di chi, in un delirio di narcisismo e megalomania, si ritiene superiore alle leggi. Trasgressioni che piacciono tanto al suo esercito di fedeli (più che di elettori) manovrati dalla bussola rivendicativa dell’acronimo Maga (Make America Great Again).

E’ già sbalorditivo che nella culla democrazia possa di nuovo imporsi un candidato che, se forse non l’ha organizzato in prima persona, ha sicuramente incoraggiato l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 (il giorno dell’insediamento di Biden). Un politico implicato in una miriade di processi, civili e penali, che avrebbero polverizzato qualsiasi carriera. E che invece fungono da carburante per il sostegno granitico che lievita nelle file del partito repubblicano. Non c’è accusa (dai piani di sovversione agli scandali finanziari, dal disprezzo per le istituzioni agli assalti sessuali) che riesca frenare la sua marcia. Non c’è passo falso (dai discutibili risultati del primo mandato alla caterva di bugie, dal disordine in cui aveva precipitato la  Casa Bianca alle provocazioni a raffica) che riesca a smorzare la fascinazione che esercita sui forgotten men, gli americani del paese profondo impoveriti dai contraccolpi interni della globalizzazione. Più piccona e più cresce nei sondaggi.

Joe Biden, che in economia ha pure centrato obiettivi non irrilevanti, in tempi così chiassosi sconta l’handicap di una comunicazione poco gridata (a differenza dell’avversario), oltre che dell’incipiente senilità. Ma è ancora in corsa perché c’è un’ampia fetta del voto conservatore moderato orientato perlomeno ad astenersi pur di non consegnare i destini della prima potenza mondiale agli stravaganti umori di un leader tanto controverso. Più che sulle sentenze dei tribunali (che arriveranno solo dopo le elezioni) e al verdetto costituzionale sulla sua candidabiliità per l’attacco al Congresso al vaglio della Corte Suprema (la maggioranza degli alti magistrati è stata nominata proprio da Trump) il fronte democratico confida sulla paura che il ritorno dell’ex presidente venga percepito dalla maggioranza degli americani come un salto nel buio. Meglio insomma le amnesie di Biden che le forzature di Trump. Ma l’esito è incerto perché la sfida solletica le corde della passionalità più di quelle della razionalità e riguarda più la psicologia di massa che uno scontro fra ideologie.

Non solo l’America, come si è detto, è appesa al secondo round fra i due grandi vecchi, per diverse ragioni non del tutto affidabili. E’ l’intero mondo che trattiene il fiato confluendo nei due schieramenti. C’è Vladimir Putin che non ha mai trovato un briciolo di sintonia con Biden e che (come ha confermato nell’intervista a Tucker Carlson) fa apertamente il tifo per Trump. Che, come lui, asseconda il mito dell’uomo forte, libero dai contropoteri della democrazia ortodossa. E, di riflesso, c’è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky che vive come un incubo un suo nuovo avvento, foriero quasi certamente di un rapido disimpegno dell’America dal sostegno militare e finanziario alla sempre più fragile resistenza di Kiev.

C’è la Nato che pure fa gli scongiuri dopo lo scriteriato comizio in cui Trump (già tentato di abbandonare l’Alleanza Atlantica durante il suo primo quadriennio) ha minacciato di farsi da parte di fronte ad attacchi esterni se i membri del Patto militare continueranno a non adempiere ai loro obblighi finanziari invitando addirittura Putin a punirli se morosi. E’ pur vero che gli altri Paesi aderenti alla Nato (quelli dell’Europa per primi) non si sono mai troppo curati dei richiami a una più equa distribuzione dei finanziamenti. Solo una decina su 31 sta rispettando l’impegno contratto nel 2014 di versare il 2 per cento del Pil per le spese della sicurezza militare (l’Italia è ferma intorno all’1,5% contro il 3,45% degli USA). Ma è altresì acclarato che per le dimensioni e per i vincoli etici di dover esercitare la guida del mondo è all’America che spettano gli oneri e le responsabilità maggiori.

E, ancora, c’é il premier Benjamin Netanyahu che aveva un’intesa naturale con Trump (mentre non ha mai troppo legato con Biden) che tenderebbe ad allungare il conflitto contro Hamas almeno fino a novembre. Per farsi di nuovo forte del pieno sostegno americano e avere più margini di manovra per difendere una leadership fortemente compromessa (e sfuggire soprattutto a una condanna per corruzione che potrebbe portarlo in carcere). E, di converso, tremano tutti i capi delle varie fazioni della Palestina che considerano Trump come un nemico mortale e che con la sua rielezione vedrebbero di nuovo affossata la prospettiva di nascita del loro Stato.

In posizione più attendista la Cina. Trump era solito dialogare con Xi Jinping verso cui Biden ha sempre cercato di mantenere una certa distanza. Entrambi i presidenti americani hanno nei fatti elevato dighe contro l’ambizione della Cina di scavalcare gli Stati Uniti ai vertici della supremazia mondiale. Ma il nazionalismo di Pechino è più vicino al sovranismo (“America first”) di Trump che forse neanche interverrebbe (o lo farebbe con cautela) nel caso di un’invasione di Taiwan.

Di certo la rielezione dell’incontinente tycoon sarebbe salutata con entusiasmo da tutti i sovranisti del pianeta: dall’argentino Javier Milei ai seguaci sconfitti del brasiliano Jair Bolsonaro, dai populismi europei alle autocrazie sparse un po’ in tutto il mondo. Con il coinvolgimento perfino del dittatore nordcoreano Kim Jong-Un verso cui Trump aveva azzardato un paio di inconcludenti approcci.

Forse mai il mondo ha atteso con tanta trepidazione l’esito di un’elezione americana che stavolta potrebbe davvero sconvolgere i destini del mondo. Non è poi così astrusa la tesi di chi sostiene che alle presidenziali degli Stati Uniti, che determinano poi ricadute un po’ ovunque, dovrebbero poter votare tutti gli esseri adulti del pianeta Terra.

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