Un pastiche politico si conclude tragicamente

La storia recente dei rapporti tra Usa/Occidente e Russia non brilla per saggezza né per genio politico. Russofobia da un lato e rancorosa frustrazione dall’altro hanno puntualmente preparato l’attuale scontro militare, che nessuno sa ancora come disinnescare

di Stefano Pontecorvo

La guerra in corso andava maturando da circa trent’anni; le sue radici riposano nella Guerra fredda e in una mentalità che non è evoluta anche dopo che essa è stata sepolta, almeno nominalmente, e in atteggiamenti politicamente poco saggi da ambo le parti. È sempre complicato dare una valutazione obiettiva delle condizioni che hanno portato alla situazione di conflitto nella quale si trova l’Europa intera, letteralmente dall’Atlantico agli Urali, specie a guerra in corso e con i teleschermi invasi da immagini ad alto impatto emotivo.

Che si tratti di una aggressione non vi è dubbio; che si tratti di una guerra di conquista è altrettanto vero, con obiettivi chiari all’inizio ma in cui l’impreparazione e l’imperizia dei militari russi hanno di fatto spostato i paletti di quanto è possibile e raggiungibile per l’inquilino del Cremlino. Forse lo si è considerato fin troppo razionale, ritenendo che la limitata sostenibilità dell’economia russa lo rendesse più realista di quanto non sia. O forse egli è stato ingannato dai suoi propri militari che gli hanno dipinto come raggiungibili in poco tempo obiettivi che non lo erano, ingannati a loro volta dalla propria intelligence o dalla narrativa prevalente.

Vi sono tante incertezze in questa vicenda tragica, accanto alle quali vi è qualche certezza che può fare da base a una analisi seria del perché siamo dove siamo. Analisi che non deve essere una distruzione sistemica, né un cercare colpe a tutti i costi, né una benevola catarsi da mettersi alle spalle per ricominciare da capo come se l’Ucraina fosse un inevitabile incidente su un percorso altrimenti lineare. Al contrario, un’analisi seria deve servire per capire gli errori di gestione politica, quanto poteva essere fatto meglio e diversamente e quanto vada aggiustato o registrato per evitare di tramandare alle generazioni future un mondo gravato da errori ripetuti e costosi in tutti i sensi.

La guerra ucraina va presa in un contesto più ampio e complicato, con gli attori principali della crisi (assieme, evidentemente, all’Ucraina stessa) che, grazie alle scelte e alle politiche perseguite veleggiavano verso un confronto inevitabile, di cui l’annessione russa della Crimea è stata una delle tappe. Da un lato la muscolarità con la quale gli americani e l’Occidente in generale hanno condotto i propri rapporti con il resto del mondo e che ha portato ad una serie di interventi politici e militari che hanno di fatto sconquassato i Balcani, il mondo arabo e il Nord Africa, aree di riferimento per noi come per la Russia di Putin che non è mai stata seriamente consultata (con una parziale eccezione sui Balcani). Indicazione di un’altra caratteristica della politica muscolare, che ha trattato la Russia come oggetto della politica estera occidentale piuttosto che come soggetto di un rinascente mondo multipolare. Un atteggiamento occidentale che Putin e i russi hanno più volte stigmatizzato (usando un termine diplomatico) e che ha accresciuto la distanza tra Mosca e l’Occidente, tra i quali non vi è stato alcun ingaggio politico che abbia dato ai russi la sensazione di essere considerati interlocutori paritari.

All’interno del campo occidentale vi è stata altresì una netta divergenza tra la politica americana del containment e quella tedesca (più che europea) dell’ingaggio, con il tentativo di legare la Russia all’Europa attraverso l’interdipendenza nel campo energetico, contando sul fatto che le materie prime energetiche costituiscono oltre il 65% dei proventi russi. Oltre che sulla considerazione che gli scambi e la convergenza degli interessi politici ed economici avrebbero aperto la Russia a un dialogo sempre più serrato che avrebbe favorito stabilità e sviluppo.

Era una politica saggia, che per avere una qualche possibilità di successo, avrebbe dovuto essere accompagnata da una volontà di dialogo nello spirito di Pratica di Mare, senza preclusioni (es. l’allargamento Nato è un dato di fatto non negoziabile…) e con tutti gli argomenti sul tavolo. Cosa resa impossibile dalla politica americana e dalla russofobia crescente nell’ambito dell’Europa e delle sue istituzioni, Ue e Nato, man mano che procedeva l’allargamento di entrambe. Russofobia che è diventata una “self fulfilling prophecy” in cui si mischiano da ambo i lati le cause e gli effetti. Il sentimento anti russo è frutto di un calcolo politico radicato nella storia per i britannici e nella politica per gli americani, ma riflesso di atteggiamenti forse comprensibili ma politicamente catastrofici nei nordici e nei Paesi dell’est europeo, che ha di fatto chiuso i margini per un confronto aperto con i russi, i quali a loro volta si sono assuefatti all’idea che con l’andare del tempo la Nato costituiva sempre più un nemico più che l’interlocutore che sembrava poter essere.

Dall’altro lato, dopo gli inizi incoraggianti degli anni ‘90, in cui l’avvento di Putin al Cremlino prometteva di voltare pagina rispetto a quella Russia eltsiniana pasticciona e corrotta che tanto preoccupava il resto del mondo, sia per l’arsenale nucleare che per  l’influenza sull’Asia centrale ricca di giacimenti, la deriva autoritaria e antidemocratica presa dal nuovo Presidente russo lasciava presagire che egli non sarebbe stato quel personaggio accomodante che le condizioni economiche di arretratezza del Paese gli avrebbero imposto di essere, almeno secondo le valutazioni americane. Il profondo programma di rinnovamento delle Forze Armate russe, l’ammodernamento del suo arsenale nucleare, l’espansione dei servizi di sicurezza e intelligence, la stretta sulla libertà di stampa e sugli oppositori politici, il ritiro dal Trattato CFE (Conventional Forces in Europe) oltre che il mantenimento delle truppe russe in Georgia e Moldova contro la volontà dei padroni di casa, davano la cifra del personaggio oltre che l’indicazione del posto che, nel suo immaginario, spettava alla Russia sulla scena mondiale. La Russia non sarebbe stata una comprimaria. A Putin non sembrava di chiedere molto sul piano internazionale; all’Occidente sembrava una pretesa eccessiva.

Non bastò a risvegliare i sensi nemmeno il duro discorso del Presidente russo a Monaco nel 2007, esemplificazione tra le più chiare della linea politica della Russia putiniana che esprimeva tutto il proprio disaccordo verso un modello di relazioni internazionali in cui le regole venivano dettate ed interpretate secondo un sistema di valori e valutazioni propri solo dell’Occidente. Il tutto condito da una serie di accuse ad americani e Nato, in primis riguardo all’allargamento ad est che chiaramente era l’elemento che maggiorente disturbava i russi, ma anche l’atteggiamento occidentale reo di non tenere nel dovuto conto gli interessi di Mosca con evidente e chiaro riferimento alla politica anti serba nei Balcani (Bosnia e Kosovo) e quella perseguita in Iraq, oltre alla denuncia della mano occidentale nella percepita destabilizzazione di Paesi vicini alla Russia (Ucraina in primis).

In questo clima si arriva al Vertice Nato di Bucarest, che respinge la richiesta di adesione di Georgia e Ucraina, ispirata dagli americani ma avversata principalmente da Germania, Italia e Francia, ben coscienti delle riserve russe e di ciò che esse significano. Ma quel Vertice inaugura la “Politica della Porta Aperta” dell’Alleanza nei confronti dei due Paesi, che lancia ai russi il messaggio politico che le loro preoccupazioni riguardo all’allargamento non hanno rilievo. Per tutta risposta la Georgia viene prontamente invasa dai russi pochi mesi dopo, con la creazione delle Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, che inaugurò la dinamica che portò all’invasione della Crimea nel 2014, vero e proprio spartiacque nelle relazioni tra Occidente e Russia.

Lo scenario post-2014 non si discosta molto da quello precedente l’invasione e l’annessione della Crimea, atti inaccettabili e contrari al diritto internazionale, comunque li si voglia guardare. Tranne che dal punto di vista del Cremlino, per il quale sono state l’unica risposta possibile al trattamento ricevuto. È opinabile se un atteggiamento diverso da parte americana e Nato avrebbe indotto il Presidente Putin ad una politica e a decisioni diverse, ma non ne avremo mai la controprova. Le firme sugli accordi di Minsk erano ancora fresche quando sono partiti i primi distinguo e le interpretazioni divergenti rispetto al testo firmato. Grazie anche a queste divergenze di opinioni sulle implicazioni delle varie clausole, nonché sulla loro tempistica e sull’ordine nel quale esse andavano eseguite, nessuno dei tredici punti è stato pienamente attuato. Parlare di responsabilità è anche qui complesso ma non improprio; i tecnicismi nascondevano, si dice, una volontà politica, non solamente ucraina, di mettere nell’angolo i russi resistendo a ogni loro richiesta.

Il bagaglio di diffidenze che il rapporto russo-ucraino si è trascinato da vari anni, basato sulla convinzione che le esigenze russe sono per principio viziate nella forma e nella sostanza e che pertanto non debbano essere prese in conto, ha trascinato l’applicazione delle clausole di un accordo che avrebbero contribuito a disinnescare una situazione conflittuale, eliminando una ragione (o una scusa) per l’aggressione russa. E che dietro alle rigidità ucraine vi fosse il sostegno fermo occidentale non è un segreto, né per noi né per il Cremlino già bruciato dall’andamento della vicenda Yanukovich.

Su questo sfondo, che sa tanto di ballo sulla tolda del Titanic, dal 2014 in avanti l’Occidente si è disinteressato alle sempre più visibili frustrazioni russe, spinto dalla volontà di ricondurre Kiev entro la “famiglia europea”, facendone parte integrante dell’area euro-atlantica; tradotto in russo, l’avamposto americano contro Mosca, con la Nato ai confini del Paese e truppe americane sulla frontiera. Abbastanza da far innalzare ulteriormente la tensione, alimentata anche da azioni occidentali al limite del politicamente irresponsabile che hanno accresciuto la convinzione russa che l’Ucraina fosse persa nonostante la maggioranza della popolazione non fosse antirussa né contraria a un più stretto rapporto con essa. Sul piano politico quanto successo da Yanukovich in poi venne preso da Mosca come un vero e proprio golpe eterodiretto al servizio di obiettivi antirussi. A completare il quadro vi sono state le attività più propriamente militari condotte con l’Ucraina e in Ucraina dall’Alleanza Atlantica e dai suoi Stati membri.

Una buona esemplificazione dello spirito con il quale queste attività sono state portate avanti sono le dichiarazioni del Comandante ucraino dell’esercitazione “Rapid Trident” del settembre dell’anno scorso, alla quale hanno partecipato militari di circa 15 paesi Nato, secondo il quale esse costituivano un passo importante verso l’integrazione europea dell’Ucraina. “Integrazione europea”, venendo da un alto ufficiale nel mezzo di una esercitazione militare è stata letta, e non solo da Mosca, come integrazione militare. Altre esercitazioni vi erano state nell’est europeo, tra cui quelle marittime e di difesa aerea nel Mar Nero, tutte rivolte a contrarre una minaccia da est, che hanno lanciato segnali chiari a Mosca.

Così come il segnale chiaro verso l’integrazione di Kiev nelle strutture euro-atlantiche è stato dato dai programmi di addestramento, sia in Ucraina che all’estero, forniti dai Paesi Nato a varie unità ucraine. Il fatto che gli americani abbiano inviato nel Paese, come addestratori, unità della guardia territoriale della Florida piuttosto che militari a pieno titolo dimostra che il Pentagono era ben cosciente della sensibilità dell’esercizio, perseguito in forme e tempi diversi anche da altri Alleati.

Accanto alle esercitazioni e all’addestramento possiamo mettere anche le dichiarazioni che provenivano in questi anni da Evere, il quartier generale alleato, manifestazione di quel misto di preoccupazione autentica e russofobia caratteristica dell’Alleanza (e che Putin ha giustificato, a posteriori), che sono largamente caratterizzate da ammonimenti e censure piuttosto che prefigurare l’apertura di un dialogo volto a spazzar via, nel limite del possibile, le divergenze di opinione. Per chiudere il cerchio, poi, con gli improvvidi rifiuti di Washington a dialogare con Mosca alla vigilia dell’invasione mentre ne denunciava con forza gli intenti aggressivi con tanto di date e direttrici di attacco. Un ulteriore errore politico che compendia la storia recente dei rapporti tra Stati Uniti/Occidente e Russia che, se gestiti con un atteggiamento più realistico e politicamente responsabile da parte occidentale, avrebbero forse risparmiato all’Europa anni di tensione e all’Ucraina il dolore della sua gente, oltre a permettere forse una convivenza accettabile con il potente vicino che avrebbe evitato le pesanti prospettive con le quali essa, e l’Europa intera, sono confrontate.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

(Associated Medias) – Tutti i diritti sono riservati