A 84 anni dalla approvazione della legge attualmente in vigore si è aperto il dibattito negli Stati Uniti, culla del capitalismo, sul tema delle ore lavorative. Vorrebbe portarle a 32 Sanders, senatore indipendente dello Stato del Vermont, appartenente al Partito Democratico, unico politico americano ad essersi ma definito socialista. E se la sua riforma passasse investirebbe sotto diversi profili il panorama sociale e lavorativo americano ma, per poterne comprendere appieno la portata, è opportuno fare qualche passo indietro.
Non in molti sono a conoscenza del fatto che, nel 1933, gli Stati Uniti furono vicini ad istituire una settimana lavorativa di 30 ore, salvo poi cedere alle forti pressioni esercitate dalle grandi compagnie americane, le quali nel 1940 riuscirono ad ottenere la firma del presidente Franklin D. Roosevelt sul Fair Labor Standards Act, che imponeva 40 ore settimanali di lavoro. Attraverso la proposta di Sanders, a distanza di ben 84 anni, il tema delle ore lavorative è tornato centrale, sebbene in uno scenario socio- economico solcato da mutamenti profondi e trasversali. In particolare, a dispetto di un’esponenziale crescita della tecnologia e, di riflesso, della produttività del lavoratore statunitense, sono in milioni a lavorare di più per guadagnare di meno, al netto dell’inflazione. Anche rispetto ai loro colleghi di altre grandi potenze economiche come Giappone, Germania e Regno Unito, su una base annuale, negli Stati Uniti i dipendenti lavorano almeno 200 ore in più.
Su queste basi affonda le radici il Thirty-Two HourWorkweek Act proposto da Sanders. Del resto, il progresso tecnologico portato dai computer, dalla comunicazione istantanea e dell’intelligenza artificiale, ha condotto anche Bill Gates e Jamie Dimon, rispettivamente fondatore e CEO di Micfrosoft e di JP Morgan, a paventare l’ipotesi di una settimana lavorativa di 3 giorni e mezzo. Nel mezzo di un contesto storico in cui la salute mentale dei lavoratori vacilla sempre di più, infatti, oltre che di natura schiettamente economica, le implicazioni sarebbero consistenti anche sul piano sociale.
Anche altri paesi hanno iniziato, in via permanente o sperimentale, a rimodulare i carichi di lavoro peralleggerire i propri dipendenti. Ad esempio, nel Regno Unito, è stato attuato un programma che ha coinvolto 3.000 lavoratori di oltre 50 aziende, con l’obiettivo di fungere da pilota nel test della settimana lavorativa di 4 giorni. I risultati sono stati sorprendentemente positivi, con il 73% degli impiegati che ha dichiarato di aver tratto benefici dal programma ed il fatturato medio delle aziende coinvolte che è lievitato del 35%. Non a caso, infatti, il 91% delle aziende che hanno preso parte al programma ha adottato in via permanente la settimana lavorativa di 4 giorni. Analisi del genere sono in corso anche inGermania e Danimarca, in Belgio la settimana lavorativa è di 4 giorni ed in Francia di 35 ore.
Tutti elementi a sostegno della riforma. D’altronde, appare certamente sensata una riflessione sul punto, specie se si considera che in un contesto lavorativo integralmente rivoluzionato, con la produttività esplosa oltre il 400%, la legislazione attualmente in vigore risale al 1940,
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