Uscire dalla crisi: L’Italia, il G20, e la speranza di  un nuovo “rinascimento”

Velia Iacovinodi Velia Iacovino

Con tante belle promesse e tante belle speranze l’Italia il primo dicembre ha assunto la presidenza del G20, il Gruppo che rappresenta i 19 maggiori paesi industrializzati del mondo più la Ue, e che sin dalla nascita, avvenuta nel 1999 da una costola del G8, ha assunto su di sé l’onere di promuovere a livello globale stabilità economica, crescita sostenibile e di creare architetture finanziarie adatte di volta in volta alle esigenze dei tempi.

E se questo è un momento, sembra anche scontato ricordarlo,  non  certamente dei più facili, con l’emergenza Covid  al picco e le sue drammatiche ricadute, la crisi che il pianeta sta attraversando e che richiede una coesione fortissima fra gli stati e decisioni condivise, potrebbe di contro rivelarsi per l’Italia un’occasione per ritrovare finalmente quel ruolo da protagonista che aveva una volta nei grandi giochi della politica internazionale e per mettere in campo tutte le sue straordinarie intelligenze e risorse  in nome di quei valori solidaristici ed egalitari che costituiscono l’ossatura stessa della nostra democrazia e di cui adesso più che mai l’intera comunità umana ha bisogno.

Il progetto messo a punto dal governo, almeno negli intenti, va proprio in questa direzione. Persone, Pianeta, Prosperità ne costituiscono i pilastri e si propongono come il trinomio di una strategia che ha come primo obiettivo dichiarato quello di rimettere l’uomo al centro – non a caso l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, simbolo del Rinascimento, dell’Umanesimo e dell’Italia nel mondo, campeggia nel logo scelto dal nostro paese- un uomo consapevole del suo posto nell’universo, icona di armonia con il cosmo e la natura.

“Vogliamo promuovere una ripresa sostenibile, inclusiva, resiliente. La nostra intenzione è mettere in atto tutte le misure necessarie per una ricostruzione solida ed efficace, promuovendo una società più equa, un pianeta più pulito e sano, un ambiente economico più prospero”, ha detto il premier Giuseppe Conte, impegnandosi a non lasciare indietro nessuno…e a “dare un futuro migliore” al pianeta, cosa possibile “solo se lavoreremo tutti insieme”, ha sottolineato, ricordando che “se c’è una lezione che abbiamo imparato molto duramente in questi ultimi mesi è che nessun paese può vincere da solo le sfide globali”.

La pandemia sta aprendo ferite profonde all’interno del tessuto sociale di ogni nazione del mondo. Con oltre 67 milioni di contagiati – sono le cifre diffuse il 7 dicembre dalla Johns Hopkins University-  e più di 1.536.000 decessi dal suo inizio, ha avuto l’effetto di un vero e proprio tsumani sull’economia planetaria.

La povertà è in aumento e secondo uno studio della Banca Mondiale, pubblicato in ottobre, la crisi del Covid-19 porterà, entro la fine del 2021, fino a 150 milioni di  persone al di sotto della soglia di estrema miseria, fissata a un dollaro e 90 centesimi (1,61 euro) al giorno. Una condizione che tocca quest’anno tra il 9,1 e il 9,4 % della popolazione del globo. Il Pil mondiale è crollato al 4,4% , quello dell’Eurozona al 7,7% (un record dalla Seconda Guerra Mondiale) e quello degli Stati Uniti al 4,3% con la sola Cina in segno positivo negli ultimi mesi con l’1,9%. I dati sono del Fondo monetario internazionale. Un duro colpo il virus lo ha inferto anche alla bilancia commerciale che è andata sotto del 9,2% e alla produzione mondiale che ha subito perdite per 11.000 miliardi di dollari che potrebbero salire, sempre stando allo Fmi, a 28.000 miliardi nel quinquennio 2020-2025. E mentre la disoccupazione aumenta e il mondo del lavoro cambia pelle, a causa del distanziamento obbligatorio e dei lockdown, cresce pure vertiginosamente il debito globale complessivo, che si appresta a raggiungere il 101,5% del Pil..

Questo è lo scenario che l’Italia ha dinanzi nel prendere le redini del G20. Una bella sfida, che può essere vinta soltanto facendo squadra e facendo rete e adottando decisioni rapide ed eque. Il ritorno al multilateralismo, caduto in disuso nell’era di Donald Trump, appare l’unica strada percorribile in questo momento di gravi difficoltà per tutti, se si vuole dare slancio e attuazione ad azioni comuni in uno spirto di sostanziale convergenza di interessi. E il G20, rappresentando le principali economie del mondo, che insieme assommano oltre l’ 80% del pil  mondiale, il 75% del commercio globale e il 60% della popolazione del pianeta, nella sua informalità, rispetto ad altre consolidate istituzioni, è sicuramente lo strumento diplomatico più idoneo per raggiungere in questa difficile fase obiettivi concreti e condivisi.

Del Gruppo fanno parte Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sud Africa, Turchia e Unione Europea, ai quali si aggiunge la Spagna, come invitato permanente, e altri paesi, di anno in anno, scelti dalla Presidenza di turno per partecipare ai lavori, aperti anche ad altre organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, le Nazioni Unite, l’Oil e l’Ocse. Una realtà variegata, ben diversa, anche nelle finalità, dal G7 da cui è stata originata, costituito nel 1975 -dopo il crollo del sistema di Bretton Woods e la crisi energetica del 1973- da Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada, potente e ristretto club rappresentativo degli interessi dell’Occidente, che è andato man mano cambiando completamente pelle, diventando G8 con l’ingresso nel 1998 della Russia (sospesa a causa del conflitto con l’Ucraina),  per poi proporsi come G8+5 con l’apertura nel 2005 a Brasile, Cina, Messico India e Sudafrica, e subito dopo come G14 con l’ingresso dell’Egitto, sponsorizzato da Italia e Francia.

Espressione della necessità di governare l’evoluzione in chiave globale dell’economia e della finanza, il G20 è figlio invece delle turbolenze che a fine del secolo scorso investirono i i paesi emergenti dell’America Latina e dell’Asia e della rapida ascesa di alcuni di loro, i cosiddetti Brics – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica- ai quali si andarono ad aggiungere Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia e Australia.

La nascita del forum venne annunciata dai Ministri delle Finanze dei G7, riuniti a Washington DC il 25 settembre 1999 e il primo meeting si tenne a Berlino, due mesi dopo. Ma fu, nel 2008, dopo la crisi innescata dal collasso della Lehman Brothers, che il G20 ridefinì il suo ruolo, elevandosi a vertice di capi di stato e di governo e accreditandosi, in virtù del prezioso contributo che seppe dare in quel momento, come  strumento capace di indirizzare a livello globale le politiche economiche e finanziarie.

Una mission, di cui poi, nel corso degli anni, si è smarrito il senso. Il forum ha perso smalto. E’ andato eclissandosi. Non ha prodotto accordi sostanziali a livello monetario, finanziario e commerciale, trasformandosi, nella percezione generale, in un evento retorico e inutile, che ha allargato in maniera dispersiva il suo raggio di interesse a temi collaterali a quelli macroeconomici. Temi che sono diventati assolutamente prioritari, come l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, le migrazioni e la salute. Ed è per questo che oggi, con il cambio di guardia in corso alla Casa Bianca, il nuovo vento keynesiano  che spira sul Fmi e il dramma sanitario provocato dalla pandemia, il G20 può tornare a proporsi come cantiere internazionale per ripensare collettivamente il mondo e ridisegnare il pianeta in chiave nuova. La Presidenza italiana ha chiare le potenzialità del forum e la necessità di cambiare passo. E il momento sembra propizio a un superamento della visione miope degli stati scatoletta e sovranisti, che pensano solo ai propri interessi, non rendendosi conto che il mondo è un gigantesco sistema connesso e che davvero il battito di ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

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