Venezuela, l’ombra di Putin tra Biden e Maduro

L’invasione russa in Ucraina ha aperto nuove possibilità per il Venezuela. Washington e Caracas aprono al dialogo nel pieno della crisi mondiale per le forniture di petrolio

di Federico Larsen

L’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato condizioni inattese nella periferia del sistema internazionale. Nella maggior parte dei Paesi latinoamericani si è aperto il dibattito intorno alla creazione di nuove imposte per tassare i ricavi straordinari ottenuti dai comparti della produzione alimentare ed energetica grazie all’impennata dei prezzi di cereali e idrocarburi. Il Venezuela in particolare mira ad approfittare della congiuntura per migliorare la propria posizione internazionale di fronte alle potenze occidentali. E in parte ci sta riuscendo.

A inizio marzo una delegazione di alti funzionari Usa guidata da Juan González, Consigliere per l’America Latina della Casa Bianca, ha incontrato a Caracas i rappresentanti del Governo di Nicolás Maduro per discutere un allentamento delle sanzioni che pesano sull’export del petrolio venezuelano dal 2019. I contenuti di quella riunione non sono stati rivelati, ma alcune mosse fatte in seguito permettono di interpretarne l’indirizzo: il governo venezuelano ha rilasciato, pochi giorni dopo l’incontro, due dei cinque direttori statunitensi della Citgo Petroleum Corporation arrestati nel 2017 per frode ai danni della statale Petróleos de Venezuela (Pdvsa). In California, intanto, la multinazionale petrolifera Chevron Corp ha creato un gruppo di esperti per negoziare col Tesoro a Washington la riattivazione delle proprie attività nelle quattro joint venture che condivide con la Pdvsa. Prima delle sanzioni imposte dalla Casa Bianca, il tandem venezuelano-statunitense produceva circa 200.000 barili di petrolio al giorno, oggi ridotti a poco più della metà. Le conversazioni includerebbero anche la cessione a Chevron del controllo di diversi settori della produzione da parte delle autorità di Caracas, oltre alle autorizzazioni oil-for-debit per aziende internazionali che mantengono debiti con gli Usa dovuti alla sospensione delle proprie attività in Venezuela, tra cui la spagnola Repsol e l’italiana Eni SpA.

Un disgelo nei rapporti con gli Stati Uniti è possibile?

A prima vista, l’equazione sembra semplice: dopo aver sospeso le importazioni di greggio dalla Russia a causa della guerra, l’amministrazione Biden sarebbe disposta a mettere in soffitta le accuse di violazione ai diritti umani contro Caracas pur di sostituire il petrolio russo con quello venezuelano. Eppure la questione è molto più complessa. In parte perché le importazioni di petrolio dalla Russia rappresentano una minima parte del fabbisogno statunitense, che ben potrebbe essere rimpiazzato per altre vie. E poi perché il Venezuela tarderebbe anni a raggiungere una produzione sufficiente a sopperire le necessità del mercato Usa. Secondo le più rosee previsioni, una cancellazione delle sanzioni sul petrolio permetterebbe al Venezuela di produrre circa 1,5 milioni di barili al giorno a fine 2023, appena sufficienti a ridurre l’impatto della carenza energetica sul prezzo della benzina nei distributori degli Usa. Il tracollo dell’industria petrolifera venezuelana è infatti gigante. Nel 2016 il Venezuela produceva circa 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno. Nel marzo del 2022 la media era di 755.000. Il Paese con le più grandi riserve al mondo di greggio ha dovuto importare petrolio dall’Iran nel 2019 per far fronte alla crisi. Senza la collaborazione tecnica delle imprese straniere dunque, l’oro nero venezuelano resterà sottoterra.

Le ragioni di un possibile disgelo nelle relazioni tra Washington e Caracas bisogna dunque cercarle nelle proiezioni dell’emisfero a medio e lungo termine. E in questo ambito, il Governo di Maduro sta cercando di mostrare un volto più tollerabile per la Casa Bianca. A partire dal 2019 si assiste a una dollarizzazione de facto dell’economia locale: il 70% delle transazioni commerciali avvengono in valuta statunitense col beneplacito delle autorità locali. L’inflazione annua è piombata così dal 2.295.981% del 2017 al 250% previsto per il 2022. Il Governo ha progressivamente liberalizzato l’importazione in alcuni comparti dell’economia, ha stipulato nuovi contratti con attori privati e incentivato la nascita di una nuova élite economica, meno legata all’opposizione conservatrice tradizionale.

Anche sul piano politico il chavismo ha fatto concessioni tese a migliorare il proprio posizionamento internazionale: ha avviato un tavolo di negoziazioni con l’opposizione in Messico con la mediazione del Governo norvegese; ha richiesto l’invio di una Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione europea durante le elezioni legislative del 2021, le prime con la partecipazione della maggioranza dell’opposizione in anni; e ha recentemente riaperto l’ufficio della Corte penale internazionale a Caracas, tribunale che ha tra le mani diverse denunce per violazione dei diritti umani contro le autorità venezuelane. Rappresentanti venezuelani hanno incontrato a marzo anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e si sono mostrati disposti al dialogo per la revisione delle sanzioni che Bruxelles ha imposto dal 2019.

E poi, il contesto regionale è certamente cambiato. Il Gruppo di Lima, che dal 2017 riuniva i Governi conservatori del continente in chiave anti-venezuelana si è praticamente sciolto, e i falchi che chiedevano la cacciata di Maduro come condizione per ristabilire le relazioni col Venezuela oggi sono sempre meno. A metà aprile un messaggio importante è arrivato da Buenos Aires: il Presidente argentino Alberto Fernandez, che detiene la presidenza temporale della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), ha lanciato assieme al Presidente ecuadoriano Guillermo Lasso l’appello per integrare nuovamente Caracas a pieno nella diplomazia latinoamericana.

Nuove possibilità per il Venezuela

In questo contesto, l’invasione russa in Ucraina apre nuove possibilità per il Venezuela. Difficile ancora parlare di un vero e proprio disgelo con la Casa Bianca. Gli ostacoli per un accordo sono molti. Washington pretende la celebrazione di elezioni trasparenti nel breve termine per allentare le sanzioni mentre Caracas vuole la sospensione immediata delle restrizioni imposte alla propria economia. E poi c’è il fattore russo. Dallo stabilimento dell’Alleanza Strategica siglata dall’ex Presidente Hugo Chavez e Vladimir Putin nel 2005, il Cremlino si è trasformato in uno dei principali sostenitori del Governo venezuelano. Fino al 2010 è stato il principale rifornitore di materiale militare di Caracas, superato poi dalla Cina. In Venezuela è attivo il sistema antiaereo S-300, che oltre all’uso di munizioni di fabbricazione russa prevede la presenza di personale militare russo in territorio venezuelano per il mantenimento e addestramento degli addetti locali. Fare pressione sul principale alleato del Cremlino nell’emisfero – disposto comunque a lasciarsi tentare – potrebbe portare qualche risultato a favore di Washington nel futuro.

Sta di fatto che la Casa Bianca sembrerebbe aver compreso che la linea dura nei confronti di Maduro non porta da nessuna parte, ed evidentemente vorrebbe evitare il protrarsi della tensione a lungo termine nel “giardino di casa”, come nel caso cubano. La differenza tra la gestione Trump e quella di Biden è che oggi è ormai chiaro a chiunque che qualsiasi cambiamento in Venezuela deve includere il chavismo come un attore politico di peso. L’intransigenza di Juan Guaidó, riconosciuto in passato come legittimo presidente sia da Trump sia da Biden, e delle comunità di espatriati in Florida non hanno più lo stesso effetto sugli interessi della Casa Bianca, per il semplice fatto che questi si sono dimostrati inconcludenti ed inaffidabili. Le pressioni per la sospensione delle sanzioni sul comparto petrolifero venezuelano oggi giungono anche dai settori impresari del Paese sudamericano, dalle multinazionali del settore, e la sospensione ha ormai il beneplacito di dirigenti politici democratici e repubblicani.

Per il Venezuela il principale obiettivo è rompere l’isolamento a cui è condannato da quasi 5 anni. Mantenere, anche solo dal punto di vista della retorica, il proprio allineamento a favore della Russia non sembra bastare per frenare il lento cammino verso la normalizzazione delle relazioni con il resto del sistema internazionale. Processo ormai visto come una necessità anche fuori dal Venezuela.

Testo e foto pubblicati per gentile concessione di Eastwest, magazine di geopolitica diretto da Giuseppe Scognamiglio www.eastwest.eu

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