Quale ruolo per l’Italia nell’ambito dell’ecosistema mondiale per l’innovazione

Il Presidente di Entopan si pone domande e da risposte sul tema dell’innovazione e del futuro del nostro Paese: “In un tempo – scrive – segnato da trasformazioni senza precedenti nella storia dell’umanità per intensità, portata, profondità e velocità  sarebbe utile distinguere tra (i) l’innovazione per la competitività (competitive innovation) e (ii) l’innovazione per gli impatti (impact innovation)”.

di Francesco Cicione*

Francesco Cicione

Non si è parlato molto di innovazione nel corso della campagna elettorale. Si potrà obiettare che non sono mancate le proposte nei vari programmi elettorali. Ma mai, questo argomento, così decisivo a livello internazionale, è stato centrale nel dibattito. Più di ogni cosa, però, è mancata (e manca) una visione organica sul ruolo che l’Italia può e deve svolgere nel più ampio contesto dell’ecosistema mondiale dell’innovazione. La sensazione è che nessuno si ponga questa domanda. Proviamo a sviluppare un accenno di proposta che potremmo riassumere in una formula: “la dottrina della rilevanza e dell’impresa di lungo termine”.

EPPUR SI INNOVA

Per diverse ragioni, in particolare negli ultimi decenni, nel nostro Paese si è consolidato un approccio prescrittivo (e non generativo) alla costruzione di futuro. Siamo lo Stato “moderno” con la maggiore produzione normativa al mondo: ad oggi si contano circa 110.000 leggi nazionali (cui andrebbero aggiunte quelle regionali e locali), contro le 3.000 circa della Gran Bretagna, le 6.000 della Germania e le 7.000 della Francia.

Vince la cultura del “testo” rispetto a quella del “contesto”. Un ginepraio inestricabile che, invece di liberare energie, blocca, non dona certezze e rende tutti vulnerabili ed esposti ad interpretazioni mutevoli o superficiali. In particolare sui temi dell’innovazione dove assistiamo a veri e propri paradossi di contenuto, di metodo e di visione: l’applicabilità del Codice della crisi d’Impresa alle start-up; la difficoltà di consolidare nella prassi, per le attività di ricerca e sviluppo, il riferimento al Manuale Oslo ed al criterio di Klein-Rosenberg recentemente introdotti nel nostro impianto legislativo; l’impossibilità di semplificare e sburocratizzare (anche mediante la creazioni di apposite send box).

A ciò si aggiunge anche, ma in sub-ordine, un evidente problema dimensionale: di mercato, di risorse, di infrastrutture. Perché, però, nonostante tutto questo, “eppur si innova” ? Luca De Biase ha provato ad esplorare il tema nella sua ultima fatica letteraria. Se dovessimo provare a rispondere a questi interrogativi attingendo all’esperienza dell’Harmonic Innovation Hub in cui siamo impegnati, potremmo provare a dire due cose molto semplici:

1 l’innovazione è uno sforzo controintuitivo e possibilista (anarchico, coraggioso e generoso) finalizzato a produrre dissonanze cognitive, metodologiche, culturali, economiche, sociali, istituzionali in contesti assuefatti. Necessariamente attraverso un investimento paziente e di lungo periodo che rifugge metriche e ricavi a breve;

2 laddove sono maggiori gli impedimenti tanto più si accumula potenziale latente di cambiamento. È come un onda calda, profonda e sommersa, un’energia nascosta che ha solo bisogno di punti di fuga per emergere e per sprigionare, periodicamente, il proprio potenziale.

Ci pare che questi due aspetti raccontino e riassumano in maniera efficace ed essenziale la specificità, o, meglio ancora, il paradosso tutto italiano nel fare innovazione. Un cammino, questo, in perenne equilibrio instabile tra fragilità del sistema nel suo complesso ed eccellenza di molte esperienze; tra ordine e disordine; tra normatività e creatività; tra rigidità e generatività; tra economico, politico e spirituale (per dirla con Feuerbach). Si tratta di una “innovazione per reazione” che, inevitabilmente, genera una funzione della stessa innovazione discontinua e non lineare, puntuale e non integrale.

Non è un caso che si parli sempre del “genio italiano” e non del “sistema italiano”. Si può dire, dunque, che in Italia l’innovazione coincide con le “persone” e non con le “organizzazioni” (pubbliche o private). “Persone” che poi diventano “comunità”: comunità stabili che consentono l’evoluzione durevole dell’identità locale e della competenza industriale diffusa costruendo relazioni, reticoli tra contesti, saperi, identità, conoscenze.

È l’Italia del “saper fare”, della “creatività” che diventa metodo, della cultura del progetto e del prodotto, delle imprese familiari, dei campioni della nostra manifattura e del nostro design industriale che sono i nostri veri ed autentici “unicorni”. Un “modello”, questo, costantemente alimentato non dalla forza di un “sistema” ma dalla spinta interiore dei “singoli”. È il “lavoro spirituale” che richiama l’etica della responsabilità personale. È la prospettiva suggerita nel celebre discorso agli ateniesi di Pericle: essere individualmente pensatori e costruttori di kalos, di bellezza, di armonia, di verità. E’, più di tutto, la sapienza della “parabola dei talenti”. Ciò fa dell’imprenditore, del manager e dell’innovatore, prima di ogni altra cosa, un mistagogo ed un’asceta (talvolta anche inconsapevole): solo progredendo spiritualmente si potrà contribuire al progresso materiale.

la nuova sede di Entopan

Perché, come diceva Wiener: “L’innovatore deve essere dotato di coscienza e di spirito di devozione, e anche di quella spinta interiore che non gli permetterà mai di accontentarsi di qualcosa di meno del miglior lavoro che egli possa compiere grazie alle proprie capacità. Questo spirito di missione può essere molto lontano da qualsiasi religione ufficiale, però racchiude in sé quella che è la sostanza della religione. La parola uccide, ma lo spirito illumina.”    Per queste ragioni, dunque, non è detto che il “modello italiano” riuscirà mai a diventare “sistema” (un’occasione da non sprecare, probabilmente, è data dalla possibile sussunzione nel “sistema europeo”). Ma, a dirla tutta, non è detto che ciò sia, poi, un così grande male.

ESSERE RILEVANTI: UNA VIA ITALIANA ALL’INNOVAZIONE

Nei mesi scorsi, Alain Godard, numero uno del Fondo Europeo per gli Investimenti, ha evidenziato il forte limite dimensionale del venture capital europeo rispetto agli standard dei più efficienti benchmark mondiali. Zoomando sull’Italia il problema si acuisce. Da più parti e da più tempo si moltiplicano gli appelli affinchè il Governo si impegni nella riduzione di questo ritardo assicurando stanziamenti sempre più consistenti. Si tratta, certo, di una iniziativa utile, ma probabilmente insufficiente. Solo negli ultimi mesi, infatti, la Francia, la Germania ed il Giappone hanno annunciato, rispettivamente, piani pubblici a sostegno delle politiche di innovazione per circa 10mld, 30mld e 1500mld, mentre Cina e USA proseguono nel solco dei poderosi programmi di investimento pubblico già avviati da decenni, cui si aggiungono interventi privati non meno significativi.

E poi ancora, sempre sul piano dimensionale, non va dimenticato che il nostro mercato interno è troppo piccolo per garantire vere opportunità di scalabilità. In sintesi: rischiamo di auto-condannarci ad una perenne, infruttuosa e disperata rincorsa capace, magari, di produrre solo risultati puntuali. Viene, quindi, da chiedersi: è possibile costruire una strategia alternativa finalizzata alla promozione di un progetto di sistema capace di implementare e consolidare una leadership italiana globale nel campo dell’innovazione ? Avanziamo una proposta che potrà apparire inedita (se non addirittura irrealistica e sprovveduta): spostare il focus dal concetto di “dimensione” al concetto di “rilevanza”.

Intestardirci nella rincorsa di ordini di grandezza, metriche e modelli altrui potrebbe essere, infatti, un grave errore di visione. L’esperienza ci insegna che è su altri piani che l’Italia ha sempre vinto e potrà ancora vincere la sfida: asset intangibili e strategie di lungo periodo. L’Italia può e deve esprimere una sua visione originale. L’Italia può e deve essere il “gigante” sulle cui spalle i “nani” traguardano l’orizzonte del futuro, contaminando di “senso” e di “prospettiva” i “modelli” isotropi, omogenei ed indifferenziati della modernità, sterilmente ed aridamente protesi a massimizzare solo le performance quantitative.

Essere rilevanti, appunto: per i principali grandi player globali, per i più importanti fondi di investimento internazionali, per le migliori growth & late stage companies mondiali. Dobbiamo “attrarre” ed “includere” piuttosto che “inseguire” e “gareggiare”. Per diventare l’ecosistema degli ecosistemi di tutto il mondo, per svolgere una funzione di raccordo ed indirizzo utile a costruire la necessaria sintesi tra tradizione ed innovazione; tra passato, presente e futuro; tra velocità, obiettivi, territori e paradigmi diversi. E’ questa la nostra specificità, è questo il nostro tesoro, è questo l’asset su cui costruire il posizionamento del nostro Paese nello scacchiere globale dell’innovazione.

Il “modello italiano” custodisce un “mistero” fatto di lentezza e profondità in un epoca veloce e superficiale. Un “mistero” profondamente innervato nella plurimillenaria tradizione della sapienza primigenia e dalla cultura classica e per questo capace di decodificare e risolvere la complessità crescente ed abilitare, anche in contesti industriali ed innovativi, il valore della longevità e della stabilità (plurisecolare) in alternativa alle mode passeggere e talvolta effimere.

Un “mistero” che si è fatto capacità infungibile e tradizione e che ha già prodotto da molto tempo e prima di chiunque altro (non dimentichiamolo mai!), i nostri “unicorni”: i campioni della nostra manifattura e del nostro design industriale e culturale. Nessuno al mondo può competere fino in fondo su questo piano. Non possiamo e non dobbiamo, quindi, rinunciare all’esigenza di capire e valorizzare quel tanto che non abbiamo ancora capito finanche di noi stessi. È questo vero umanesimo digitale. È questo che rende grande ed unica l’Italia. E’ questo che le conferisce una missione infungibile.

L’IMPRESA A LUNGO TERMINE

In un tempo segnato da trasformazioni senza precedenti nella storia dell’umanità per intensità, portata, profondità e velocità – a tal punto da far ritenere che si tratti di un cambiamento d’epoca piuttosto che di un epoca di cambiamenti – sarebbe utile distinguere tra (i) l’innovazione per la competitività (competitive innovation) e (ii) l’innovazione per gli impatti (impact innovation).

Sebbene entrambe necessitino di essere attuate secondo una visione armonica (harmonic innovation) emergono chiaramente alcune sostanziali differenze (cfr. “Innovazione Armonica. Un senso di Futuro” e http://”Harmonic Innovation. Super Smart Society 5.0 and Techonological Humanism”, Springer 2022). La prima (la competitive innovation) è espressione di un pensiero veloce, ragiona su obiettivi e rendimenti di breve periodo e si ripropone di creare buoni capitalisti (speed thinking o capitalism thinking): è giusto, quindi, che sia sottoposta ai vincoli imposti dal contesto di mercato (aziendale, industriale e finanziario).

La seconda (la impact innovation), al contrario, è espressione di un pensiero lento, persegue obiettivi e rendimenti di lungo periodo e si ripropone di creare buoni antenati (slow thinking o cattedral thinking): è necessario, dunque, che sia libera ed affrancata da qualunque vincolo per proiettarsi in maniera efficace, efficiente ed effettiva in un orizzonte di progresso intergenerazionale (socio-economico, ambientale e culturale).

Qualcuno potrebbe evidenziare che l’una non esclude l’altra e che le due prospettive potrebbero utilmente provare a coesistere: in fondo, non è proprio questa la logica della triple bottom line che ambisce a far convergere profitto (profit), persone (people) e pianeta (planet) nella medesima prospettiva di crescita sostenibile ?

Indagando più a fondo la questione, però, non sarà difficile comprendere che questa ibridazione non è poi così facile. Se per un verso può essere possibile (ed anche utile) integrare e/o contemperare le esigenze del profitto con quelle del pianeta e delle persone è molto più difficile il contrario. Se davvero si vuole mettere al centro i bisogni di cambiamento positivo del pianeta e delle persone, sarà necessario agire in assenza di interessi di breve periodo.

E’ una questione di priorità. Per questa ragione, nella storia degli ultimi secoli, sono sempre state le grandi istituzioni civili e religiose e le  grandi famiglie mecenatiche a farsi carico di questa responsabilità. Da quando le grandi istituzioni civili e religiose e le grandi famiglie mecenatiche hanno smesso di farsi carico di questa necessità, il mondo è diventato più vulnerabile, fragile ed insicuro. E’ necessario ricominciare, sia in ambito istituzionale che in ambito aziendale. Se possibile, facendo convergere scienze sociali e politiche pubbliche, con scienze aziendali e dell’innovazione. La storia ci insegna che questa è la strada giusta.

Le “imprese di lungo termine” non sono sottoposte all’usura del tempo. Esse vivono per creare vita e si sono sempre dimostrate capaci di generare valore diffuso per lunghi periodi, custodendo ed implementando, nel contempo, il “sapere solido” di cui sempre si ha bisogno nonchè la “memoria perenne” di chi le ha rese possibili. Sono infiniti gli esempi che si potrebbero fare. Siamo pronti e disponibili ad impegnarci sinceramente nella costruzione di una visione così ardita e controintuitiva ma nel contempo così inderogabile? Siamo pronti a promuovere la nascita di imprese e centri di competenza emancipati dal giogo di ogni ansia commerciale e burocratica per assicurare libertà, continuità, stabilità e qualità, ai luoghi nei quali si lavora per costruire un futuro migliore?

Le grandi istituzioni civili e religiose, le grandi famiglie mecenatiche e le fondazioni filantropiche, vorranno riappropriarsi di questa responsabilità affidatagli, da sempre, dalla Storia? L’Harmonic Innovation Hub – e la compagine sociale che lo sostiene – in quanto proiezione operativa dell’idea di innovazione armonica, sta provando ad implementare e promuovere questa impostazione ed auspica che su di essa convergano rapidamente tutti coloro i quali hanno storicamente sostenuto questi processi.

Con quali modalità ? Coinvolgendo, a sostegno di Harmonic Innovation Hub con una prospettiva di lungo periodo, le grandi istituzioni locali e nazionali nonchè le grandi famiglie mecenatiche e le fondazioni filantropiche Atlantiche e dell’EUMENA Region. Inoltre, coinvolgendo fondi di investimento pazienti su programmi di orizzonte almeno decennale fondati sulla progressiva valorizzazione (anche in una prospettiva di exit) degli asset intangibili e strategici e non delle revenue di mercato. Per il perseguimento di questi obiettivi, l’implementazione di un modello ecosistemico è fondamentale. E’ una sfida difficile. Ma è una sfida necessaria. E’ la sfida che, forse, l’Italia può e deve giocare a livello mondiale nei prossimi decenni.

 *Francesco Cicione (Presidente di Entopan e Founder di Harmonic Innovation Hub)

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